P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
CAPITOLO NONO. L'UMILTÀ SPECIALE DEL SACERDOTE
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Per il Sacerdote vi sono specialissime ragioni di essere umile e profondamente umile.
I. La sua qualità di Sacrificatore. – In questa qualità, il Prete è veramente un uomo annientato. All'altare, il Sacerdote pronuncia bensì le parole sacramentali della consacrazione; ma chi fa tutto, è GESÙ CRISTO. Il Sacerdote è presente, ha l'intenzione formale di essere ministro del Sacrificio e di usare del potere conferitogli dalla Ordinazione. Ma GESÙ CRISTO solamente, può appropriarsi le parole della Consacrazione: ogni altra persona che le applicasse a sé, direbbe una bugia. Che cos'è dunque diventato il Sacerdote? Sembra che si operi pure in lui quanto, con un miracolo, avviene del pane e del vino. La sostanza della materia del Sacrificio sparisce: ne rimangono solo le apparenze. Così pure, in un certo senso pieno di mistero, la persona dei Prete sparisce al momento della consacrazione, e non ne rimane che un'apparenza. Compiuto il Mistero, fatta la Consacrazione, l'umile Ministro ritorna ad essere ciò che era prima e lo si riconosce dalle parole di supplicazione che pronuncia; ma in quel momento senza pari della consacrazione, solo GESÙ CRISTO è veramente Sacerdote, GESÙ CRISTO, per parlate come i Padri, ha invaso il suo Ministro, ed Egli sola opera (502).
Abbiamo dunque ragione di dire che, in qualità di Sacrificatore, il Sacerdote è un uomo annientato. Ma vi è qui un segreto profondo, nel quale dobbiamo penetrare. Se Nostro Signore compie un tal mistero, non può essere senza qualche grande motivo. Non invade il suo Sacerdote, rendendolo in modo così ammirabile un altro se stesso, senza voler che questa grazia sia duratura. Lo stato ministeriale non può permanere; perché, riguardo al Sacrificio, tutto è compiuto quando è pronunciata l'ultima delle parole sacramentali; e dopo quel momento solenne, il Prete ritorna ad essere lui stesso. Qualche cosa tuttavia rimane: ciò che si è operato dentro di lui, la presa di possesso da parte di GESÙ CRISTO, la vita di questo adorabile Sacrificatore, le sue disposizioni, il suo spirito, le sue virtù; ecco ciò che non passa, se quella benedizione che GESÙ apporta, viene ricevuta con amore e se non vi sono ostacoli ai suoi effetti. Solo GESÙ sta e permane. È dunque vero che il Sacerdote non è più lui medesimo: GESÙ è davvero tutto in lui. «Non sono più io che vivo, GESÙ vive in me». Ma che cosa è mai un tale stato beato? Non è forse esso la vera umiltà? Questa, infatti, nella sua essenza, consiste nella dimenticanza della propria persona; è l'evacuazione dell'io, la morte perfetta a tutto quanto è spirito proprio, all'amor proprio, alla volontà propria, alla vita propria naturale; è il ripudio di tutto l'uomo vecchio, il seppellimento di qualsiasi cupidigia, e infine, per dir tutto in una parola, l'annientamento mistico di tutto l'essere umano, affinché, in questo vuoto, in questa morte, in questo nulla, Dio che si compiace sempre di lavorare sul nulla, possa, a tutto suo bell'agio, pienamente e assolutamente, operare in noi, con la grazia di GESÙ CRISTO.
Il venerato abate Olier, ha scritto pagine ammirabili in proposito; accogliamo con semplicità un insegnamento che pare ispirato dallo Spirito Santo, e piaccia a questo Spirito di verità di farcene intendere tutto il senso!
«Siccome lo stato di GESÙ CRISTO Ostia nel Santo Sacramento, è uno stato che deve servire di modello ai Sacerdoti, coloro i quali saranno chiamati al Sacerdozio, devono, secondo l'avviso che dà loro il Vescovo nell'ordinazione (Imitamini quod tractatis), avere gran cura di mantenersi nelle necessarie disposizioni per essere, col divino Salvatore, altrettante Ostie consumate alla gloria di Dio.
«Perciò, essi saranno morti ad ogni cosa esteriore del mondo, non ne sentiranno più alcuna impressione, come se fossero morti e seppelliti, limitando Nostro Signore nel SS. Sacramento, che, nascosto sotto la specie, rimane insensibile agli onori, ai beni e ai piaceri della terra (503).
«Saranno morti agli usi del secolo e ai costumi del mondo; non ne seguiranno le mode, e fuggiranno tutto ciò che potrà essere conforme al suo spirito; perché morti a questo spirito ed alla generazione del primo Adamo, non devono dare alcun segno di vivere secondo quel primiero stato.
«Saranno inoltre morti a se stessi, non mostrando sollecitudini perciò che li riguarda, come se non esistessero, poiché debbono essere consumati in GESÙ CRISTO, che li farà vivere unicamente per Dio. Sopporteranno in silenzio di essere calpestati, oppressi e persino battuti, a somiglianza delle specie del pane e del vino, che in tal modo sono state trattate per essere ridotte nello stato di poter contenere, sotto la loro apparenza, il corpo di Nostro Signore; anzi la loro sostanza viene distrutta per convertirsi nell'adorabile corpo di GESÙ CRISTO.
«Saranno quindi, i Sacerdoti, contentissimi nell'essere trattati in tal guisa; e non avranno desideri più ardenti che di essere provati con le mortificazioni, gli oltraggi e le persecuzioni (504); e così ottenere che lo Spirito di Nostro Signore annienti, nel loro interiore, tutto quanto v'ha di umano, onde li faccia vivere della sua propria vita e li renda Ostie accettevoli, morte nei sensi esteriori e viventi per Dio nell'interiore.
«Non dovranno desiderare di essere amati, né stimati, poiché non devono aver cosa alcuna cui altri possa attaccarsi. Se scorgeranno alcuna stima della loro persona, dovranno umiliarsi, e confondersi davanti a Dio di aver ancora in sé qualcosa di vivente, che sia degno di affezione e di stima; bisogna sentire con gran pena che si porti affezione e stima a qualche cosa che non sia Dio.
«Se poi ravviseranno di essere stimati per i doni di Dio e non per la loro persona, avranno gran cura di adorar Dio per i suoi doni, e di chiedergli che l'onore ne sia dato a Lui solo, e che non tolleri che la creatura partecipi menomamente alla riconoscenza ed agli omaggi che a Lui unicamente sono dovuti (505). «Bisogna inoltre che i Sacerdoti siano talmente annientati in se medesimi, che, nel servire a Dio, non pensino… che alla sua maggior gloria, unico fine che debbono aver in vista. Non dovranno aver riguardo al proprio interesse di nessuna sorta, perché, essendo consumati in Dio con GESÙ CRISTO, non hanno più nulla che loro appartenga, e, in se medesimi, non sono più nulla. Nel Sacerdote non deve essere nessun io, perché l'io del Sacerdote deve essere convertito in GESÙ CRISTO che gli fa dire all'altare: «Questo è il mio Corpo», come se il corpo di GESÙ CRISTO fosse il corpo medesimo del Sacerdote» (506).
II. Lo stato di Vittima. – Esser Sacerdote di Dio senza essere Vittima di Dio, questo sarebbe la più strana delle contraddizioni, una specie di mostruosità. In GESÙ CRISTO, la qualità di Sacerdote e lo stato di Ostia sono una cosa sola. Egli non è mai Sacerdote senza essere Ostia; non è mai Ostia se non per l'esercizio del suo Sacerdozio. Così pure del vero Sacerdote di GESÙ CRISTO; è Sacerdote in GESÙ CRISTO, è quindi Vittima in GESÙ CRISTO per immolarsi come Lui, con lo stesso spirito e per gli stessi fini. Ma, con questo già riconosciamo che in qualità di Vittima, egli è veramente annientato; perché che cosa è mai l'immolazione se non l'annientamento? Tuttavia per dimostrare la necessità dell'umiltà nel Sacerdote, considereremo piuttosto gli atti che esso deve compiere in qualità di Vittima, cioè, l'adorazione, l'azione di grazie, la supplicazione e l'espiazione. Quando non praticasse questi atti in modo abituale, perpetuo e incessante, non sarebbe punto vera Vittima.
Il Sacerdote adora. – Che cos'è l'adorazione della Maestà di Dio, se non l'abbassamento, più profondo che sia possibile, di tutto l'essere nostro davanti a tanta gloria e perfezione? (507). Come Vittima di adorazione, il Sacerdote è annientato davanti a Dio, perciò dice ogni giorno, nell'Ufficio, quelle parole: Venite, adoremus et procidamus ante Deum.
Il Sacerdote ringrazia. – L'azione di grazie perfetta riconosce che i benefizi ricevuti sono tutti gratuiti. Perciò, l'orgoglio non ringrazia, perché crede che tutto gli è dovuto, oppure che quanto riceve viene da lui medesimo. Questo fu il delitto dei filosofi pagani: «Non resero grazie a Dio» (Rm 1, 21), dice san Paolo. Credevano di essere qualche cosa, dice sant'Agostino, mentre erano un bel nulla (508). L'Umiltà crede di non essere degna di nulla, epperò sembra inabissarsi nel suo ringraziamento. È questa la disposizione continua del Sacerdote, Ostia di Dio, davanti a quel Dio «da cui scende ogni dono perfetto e ogni grazia eccellente» (Gc 1, 17). Non cessa di benedire, per conto proprio come in nome di ogni creatura, tanta bontà, generosità e munificenza.
Il Sacerdote prega. – Sacerdote, Mediatore, Ostia, egli è supplicante; supplica per se, per la Chiesa e per il mondo tutto. Egli deve pregare ad ogni respiro, tanto sono gravi, numerosi e urgenti i bisogni. Nessuno come lui, ha il dovere di parlare a Dio nella preghiera; ma nessuno pure ne ha diritto come lui. È questa la sua missione, il suo compito necessario. Egli è separato dal volgo, perché, in qualità di Ostia è di Sacerdote, solleciti «per sé e per il popolo» (Eb 7, 2-7) l'effusione della bontà e della misericordia divina. Ma è necessario, assolutamente necessario, che in un tal ministero di supplicazione, egli sia oltremodo umile; perché «Dio resiste ai superbi mentre agli umili dà il favore della sua grazia. La preghiera di colui che si umilia penetra nei cieli» (509). Nulla può mutare questa legge: Dio non ascolta che gli umili.
Tutti i grandi interessi della gloria di Dio e di GESÙ CRISTO come della salvezza delle anime, sono affidati alla supplichevole sollecitudine del Sacerdote; è necessario adunque ch'egli sia umile, anzi se è lecita la parola, che sia l'umiltà medesima.
È verissimo che il successo di tali grandi cause non dipende unicamente dalla virtù delle nostre preghiere. Il Sacrificio della Messa, il quale, giusta l'espressione adoperata da un Padre, è «il sostegno dell'universo cadente verso la rovina» (510), ha una efficacia ben superiore alla nostra mediazione troppa imperfetta. Ma il disegno di Dio vuole che il Sacrificio divino sia accompagnato dalle umili suppliche della Chiesa; orbene, il Sacerdote, unito più di ogni altro fedele all'Ostia adorabile, e inoltre delegato dalla Chiesa per esserne il Mediatore come ne è l'Ostia, è appunto l'incaricato che porta le domande e i desideri di tutti; mercé l'umiltà della sua preghiera, egli si unisce a CRISTO, e, mediante GESÙ CRISTO, si eleva sino al Padre che lo accoglie con amore.
Il Sacerdote espia. – Per la volontà del Padre, il Sacerdote, come la Vittima adorabile, porta sopra di sé tutti i peccati. Niente di più giusto che di applicargli le parole del Profeta: Posuit in eo iniquitatem omnium nostrum (Is 53, 6). Orbene, Vittima di espiazione e Vittima umiliata è tutt'uno; questo è evidentissimo. Che cosa è espiazione, se non contrizione, penitenza e confusione nell'intimo del cuore; e nell'esterno, abbassamento e abiezione? Orbene, tutto ciò, in altri termini, è umiltà e umiliazione. Davide ha riunito assieme tutte queste idee nel versetto seguente del Miserere: Sacrificium Deo spiritus contribulatus; Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies (Ps 50, 19).
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III. Terzo fondamento dell'Umiltà del Sacerdote: la grandezza della sua dignità. «Quanto magnus est humilia te in omnibus». Quali parole! Per metterle in pratica, in quali abissi di umiltà dobbiamo scendere! Qual'è la grandezza che ci è propria? A quale altezza ci hanno elevati l'elezione da parte di Dio e la consacrazione da parte della Chiesa? I Padri ci rispondono: Magna, et multa et immensa Sacerdotis dignitas (511). Omnium bonorum quae in hominibus sunt, apex (512). Omnium quae inter homines expetuntur, velut ultima meta (513). Omnium omamentorum maximamum et praestantissimum (514). Deifica professio (515). Eppure, tutte queste magnifiche parole non esprimono ancora tutto l'ineffabile mistero di gloria che si opera in noi con la nostra identificazione col Figlio di Dio, nel momento in cui pronunciamo queste parole: «Questo è il mio corpo».
Orbene, dice sant'Agostino, la nostra umiltà deve essere proporzionata alla nostra dignità (516). È veramente impossibile farci un concetto della conclusione pratica che si deve dedurre da una tal dottrina. Fossimo anche angeli, quando pure noi impiegassimo tutto il tempo della nostra vita a discendere nel nostro nulla, è evidente che non potremmo giungere a quell'ultima profondità dove ci conviene fissarci. E che dobbiamo pensare degli abissi di umiltà che dobbiamo raggiungere, se ricordiamo ciò che siamo, noi, miserabili peccatori? Onde avvicinarci più che possibile alla verità, è bene tenerci i presente il contrasto fra la nostra dignità e la nostra personale indegnità. No: non scenderemo mai abbastanza in basso nei nostri pensieri e sentimenti.
San Simeone Stilita, in una visione, udì la voce di un angelo: «Simeone, scava la terra». Il Santo obbedì e scavò per qualche tempo, poi si fermò. E l'angelo di nuovo: «Simeone, scava ancora». Il Santo ricominciò a scavare, la durò per un pezzo, poi si fermò. L'angelo, con più viva istanza, disse ancora: «Simeone, scava, scava sempre». Simeone riprese il suo lavoro con coraggio. Ecco l'immagine di quanto deve fare il Sacerdote. Ahimè! dovrà forse scavare sino all'inferno!… Se, per disgrazia ha commesso, nel tempo di sua vita, non fosse che un sol peccato mortale, egli deve scendere sino a quegli orrori. Ché se avesse commesso quel peccato abominevole dopo il suddiaconato o il Presbiterato, non vi è forse, negli abissi stessi dell'eternità infelice, qualche abisso più profondo, più orribile, un luogo più spaventoso di supplizi e di vergogne, nel quale dovrebbe considerare il posto che si sarebbe meritato, e dove già dovrebbe star per tutta l'eternità, se l'infinita misericordia e la pazienza ammirabile del nostro Dio non lo avessero trattenuto nella vita presente?
Immaginiamo un povero mendicante, coperto di stracci, rozzo e ignorante, che fosse rivestito di abiti regali e innalzato sopra un Trono. Quale confusione sarebbe la sua! Come supplicherebbe di essere liberato da una posizione così contraria alla sua condizione; tanto sarebbe per lui intollerabile il contrasto tra l'onore che gli si farebbe e ciò che sentirebbe essere suo merito! Ed avrebbe cento ragioni. Il bisogno di scomparire non sarebbe in lui che sapienza e buon senso. Orbene, quel mendicante, siamo noi; ma ogni paragone è imperfetto. Dopo tutto, infatti, tra quel mendicante e gli onori regali la distanza sarebbe molto minore che tra ciascuno di noi e la gloria del Sacerdozio. Ognuno, può dire: non sono solamente un mendicante miserabile, ma inoltre un mendicante ribelle, benché colmato di beni.
Domandiamo con vivissime istanze la grazia di ben intendere, non solo, verità così luminose, ma di fame la regola del nostro operare. Intendere non è difficile, è anche facile; ma adattare ad una dottrina così sicura la nostra vita interiore ed esterna, ecco la grande vittoria da riportare. San Bernardo ha detto: Magna et rara virtus profecto est, ut, magna licet operantem, magnum te nescias, et manifestam omnibus, tuam te solum latere sanctitatem; mirabitem te apparere, et contemptibilem te reputare: hoc ergo ipsis virtutibus mirabilius judico (517).
Quanto poi alla pratica: Humilia te in omnibus; in ogni cosa e sempre (518), ecco la regola dataci dallo Spirito Santo.
«Vide ne in sermone arrogantiam usurpes; dice san Basilio, neminem contemnens, neque tua ipsius celebrans encomia, neque alios qui hoc faciant subornans… peccatorem te accusans, nec exspectans ut ab aliis reprehendaris… Et tantum studia impendas ne apud homines gloriosus habearis, quantum impendunt alii ut glorificentur… Praelatus es aliis et homines te glorificant, par esto subiectis, non tanquam dominans in cleris… qui namque primus esse aecipit, omnium hominum servum esse jubet Christus (519).
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IV. Quarto fondamento dell'Umiltà del Sacerdote, la sublimità della santità che gli è propria. Il suo Sacerdozio di una dignità eminente, eminente deve pur essere la grazia che vi corrisponde. Orbene, se la dignità sacerdotale ci è data gratuitaménte, la santità, invece benché innanzi tutto sia l'opera della grazia preveniente, è pure opera della nostra buona volontà. Mentre poi nel sentimento della sublimità di questa dignità, noi ci abbassiamo sino ai più profondi abissi dell'umiltà, da questi abissi medesimi, per così dire, dobbiamo pigliar le mosse per elevarci sino alle cime della santità. In altri termini, l'umiltà in grado eminente è necessità se non vogliamo rimaner privi di quel tesoro di grazia che corrisponde alla nostra somma dignità. Questa legge e questa necessità risultano chiaramente da quelle parole ripetute per ben tre volte nella Scrittura: «Humilibus dat gratiam. Agli umili Dio dà la sua grazia». Se ci manca questa virtù, non abbiamo nulla da sperare; la nostra santità sarebbe un edificio senza fondamenta. È il paragone di sant'Agostino, in quelle parole riportate nella Liturgia:
Magnus esse vis, a minimo incipe. Cogitas magnam fabricam construere celsitudinis; de fundamenti prius cogita humilitatis… quanto erit majus aedificium, tanto altius (quis) fodit fundamentum. Fabrica quidam, cum construitur ad superna consurgit; qui autem fodit fundamentum, ad ima deprimitur. Ergo et fabrica ante celsitudinem humiliatur, et fastigium post humiliationem erigitur… Quod est fastigium costruendae fabricae quam molimur? quo perventurum est cacumen aedificii? Cito dico, usque ad conspectum Dei… Promittitur nobis compectus Dei, veri Dei, summi Dei (520).
Ma, donde mai quella predilezione che Dio nel suo cuore accorda all'umiltà? Perché una tale generosità verso gli umili? Non v'è altra ragione che la sua Gelosia, Egli è il Dio geloso; il Dio geloso, ecco il suo nome; geloso, in quanto che a nessun altro vuol dare la sua gloria (521). Orbene, l'orgoglio, se riceve un dono da Dio, ne prende per se medesimo la gloria, se ne fa un onore, ne approfitta per innalzarsi, attirarsi gli applausi, ed anche se può, le adorazioni; così tenta di mettersi al posto di Dio. Come mai il Signore onnipotente potrebbe vedere, con occhio indifferente, una simile usurpazione della sua gloria? Egli la castiga sempre; ora colpisce il superbo di impotenza,e nella sua indignazione e nella sua collera lo confonde; ora lo castiga più terribilmente ancora coll'abbandonarlo a se stesso, alla sua pazzia, al suo accecamento e all'eterna perdizione verso la quale si precipita.
Tutt'altra è la condotta di Dio riguardo all'umiltà. L'umiltà si preoccupa unicamente della gloria di Colui che le affida i suoi doni: niente per se medesima, tutto per l'Autore di quei beni. Essa riconosce che tutto quanto possiede, lo tiene in deposito senza merito e che ne dovrà render conto all'unico Padrone. Gelosa essa pure della gloria di questo sovrano Padrone, con ogni premura si mantiene perfettamente fedele e assolutamente disinteressata. In tal modo tutti i disegni di Dio ricevono il loro compimento, tutti i suoi diritti sono salvi, e la sua gelosia, tanto adorabile come il suo Essere medesimo, è pienamente soddisfatta. Dio allora affiderà tutti i suoi tesori ad una custodia così sicura. A GESÙ che è l’Umiltà medesima, Egli ha dato e «in Lui ha rinchiuso tutti i tesori della sua Sapienza e della sua Scienza» (Col 2, 3). A Maria che, giusta la parola di san Bernardo, sembra non trovar gloria che nell'umiltà, ha affidato il più grande dei suoi tesori, il suo Figlio unico (522). A san Giuseppe, il Maestro dell'Umiltà; a san Giovanni Battista, il gran testimonio dell'umiltà; agli Apostoli, che si rallegrarono con tanta gioia di essere coperti di confusione per il nome di GESÙ; ai Santi tutti che si sono umiliati più di tutti: una specie di prodigalità di grazie e di doni diversi senza misura; come se il Signore nella sicurezza del trionfo della sua gloria, non avesse gioia più grande che di affidar loro, a piene mani, i frutti del sangue del Figlio suo, e questo Figlio stesso, e se medesimo. Se san Vincenzo de' Paoli avesse avuto un grado di meno di umiltà, chissà di quante opere sante la Chiesa sarebbe rimasta priva!
Ah! con questi pensieri, quanto si comprende come il massimo insegnamento del Verbo incarnato, sia quella rivelazione commovente: «Imparate da me che sono dolce ed umile di cuore!» (Mt 11, 20). «O doctrinam salutarem! esclama sant'Agostino, …Huccine redacti sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae absconditi in te, ut hoc pro magno discamus a te, quonim mitis es et humilis corde?
Itane magnum est esse parvum, ut nisi a te, qui tam magnus es, fieret, disci omnino non posset? Ita plane (523).
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V. Quinto fondamento dell'umiltà, il conto rigoroso che dovremo rendere a Dio. – Questa considerazione è gravissima, dice s. Gregorio, Cum augentur dona, rationes etiam crescunt donorum. Tanto ergo esse humilior, quisque debet ex munere, quanto se obligatiorem esse conpicit in reddenda ratione (524).
È incalcolabile il numero delle grazie di gran pregio che abbiamo ricevute, e che riceviamo ogni giorno. Orbene, cui commendaverunt multum, plus petent ab eo (Lc 12, 48).
In modo particolare, abbiamo ricevuto la luce, in base a questa conoscenza distinta, la quale ci toglierà ogni scusa. Nostro Signore diceva ai Farisei: Nunc vero dicitis: quia videmus. Peccatum vestrum manet (Gv 9, 41); e san Paolo, parlando di quegli uomini orgogliosi, i quali erano tanto lontani da Dio con la superbia, quanto erano a Lui vicini con l'intelligenza» (525), ha detto: Ita, ut sint inexcusabiles; quia, cum cognovissent Deum, non sicut Deum glorificaverunt, aut gratias egerunt; sed evanuerunt in cogitationibus suis (Rm 1, 20-21).
Altro motivo, forse più grave, di timore e di umiliazione: la nostra responsabilità. È certo che Nostro Signore, nel chiamarci al Sacerdozio, faceva assegnamento saprà di noi, sopra la nostra fedeltà, la nostra devozione, il nostro zelo; faceva conto che gli avremmo fatto onore davanti ai popoli, che avremmo dilatati il suo regno, avremmo terminato l'opera della Redenzione che Egli vuol condurre, per mezzo nostro, al suo ultimo compimento. A noi ha affidato la sua causa ed i suoi interessi; portiamo in noi il suo Sangue e insieme le anime ch'Egli, col suo Sangue, ha voluto salvare. Per tal motivo, in ogni tempo, tutti i Sacerdoti santi si sentirono atterriti, e si inabissarono davanti a Dio, nel sentimento vivissimo della propria miseria e della confusione che dobbiamo temere pel dì del giudizio. Con questi pensieri senza dubbio, s. Vincenzo ad un Prete suo amico che voleva avviarne un nipote allo stato ecclesiastico, scriveva le seguenti gravi parole:
«Vi ringrazio della cura che vi prendete del mio nipotino; ma vi dirò che non ho mai avuto il desiderio che diventasse Sacerdote, perché lo stato ecclesiastico è il più sublime che vi sia sopra la terra, essendo quel medesimo che Nostro Signore ha voluto assumere ed esercitare quaggiù. Quanto a me, se quando ebbi la temerità di entrar nel Sacerdozio, avessi conosciuto, come l'ho saputo dopo, cos'è questo stato, avrei preferito starmene contadino e lavorar la terra piuttosto che arruolarmi in uno stato sì formidabile… Più divento vecchio, e più mi confermo un tal sentimento, perché ogni giorno riconosco sempre più quanto sono lontano dalla perfezione cui sono obbligato… È certo che i Preti di questo tempo hanno grande motivo di temere i giudizi di Dio, perché, oltrechè dei propri peccati, dovranno render conto anche dei peccati dei popoli, non avendo procurato di soddisfare per loro, come ne sono obbligati, alla divina Giustizia corrucciata; e, ciò che è peggio, Dio imputerà loro la causa dei castighi che manda ai popoli… Diciamo pur di più ancora, dalla cattiva vita dei Preti sono derivati tutti i disordini che han desolato questa santa Sposa del Salvatore e l'hanno sfigurata, a tal segno che essa appena è riconoscibile» (ABELLY, lib. III).
Grazie a Dio, queste ultime parole non sono da applicarsi al Clero del nostro tempo. Ma, se la Chiesa ha da ricevere qualche consolazione, questa le sarà procurata dalla grande, forte, coraggiosa e invincibile umiltà dei suoi Sacerdoti, i quali non terranno in nessun conto né le proprie persone, né la vana gloria, né l'amicizia o il favore degli uomini, e non avranno che una unica ambizione insaziabile e ardente, quella della grande gloria di Dio.
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NOTE
(502) Vedi sopra, nel Capitolo III del Libro II
(503) Quemadmodum si quis moritur in civitate, neque voces illorum qui ibi degunt, neque sonum exaudit, et transponitur in alium locum, ubi nullae sunt voces: sic, etc… – S. MACARIUS. Homil. (Così il Sacerdote deve essere insensibile e come morto alle cose mondane).
(504) Ut possimus perfectc Deum diligere, debemus no perfecte odire… Tunc autem perfecte te odis, quando non solum vis ab hominibus conculcari, sed etiam teipsum abhorres, ut vix teipsum valeas tolerare… et velles etiam a creaturis irrationabilibus impugnari. – S. BONAV., Stimul. amor., p. II,. cap. VI.
(505) Omnia spiritualis exercitii lucra referas ad illius gloriam, qui est Rex gloriae. Fur enim et latro es, si tibi aliquid inde usurpare praesumas. IIluc unde flumina exeunt, revertantur. – PETR. BLES.. De Inst. Episcop.
(506) Trattato dei santi Ordini, parte III, cap. VII.
(507) Cfr.: Lib. I, cap. XVI, hujus operis.
(508) De spiritu et littera, cap. XII (in illud, Rom., I, 21).
(509) JACOB., IV, 6. – l Petr., V, 5. – Eccli., III, 20; XXXV, 21. Ps. CI, 18. – ISA., LXVI, 2.
(510) Nutantis orbis statum sustinens. – S. EUCHER., Homil. III.
(511) S. EPHREM., De Sacerdotio.
(512) S. IGNAT., Epist. ad Smyrnas.
(513) S. ISIDOR. PELUS., Lib. II, Epist. LXXI.
(514) S. GREGOR. NAZIANZ.. Oratio III.
(515) S. AMBR., De dign. sacerdot., cap. III.
(516) Mensura humilitatis cuique ex mensura ipsius magnitudinis data est. – De sanct. Virgin., cap. XXXI
(517) In cantic., sermo XIII.
(518) Eccli., III, 20, 21.
(519) Homilia de Humilitate
(520) Sermo LXIX, cap. I et II Raccogliamo quest'altro paragone: Arborem attendite. Petit ima prius, ut sursum excrescat; figit radicem in humili, ut verticem tendat ad caelum. Numquid nititur nisi ab humilitate? Tu autem… sine radice auras petis? Ruina est ista, non incrementum. Sermo CXVII, cap. X,
(521) Es 34, 14; ISA., 59, 17; 42, 8.
(522) Si placuit ex virginitate, tamen ex humilitate concepit. – S. BERNARD., Homil. I, super Missus est.
(523) De Sancta Virgin., cap. XXXV. Da meditarsi il cap. VII del Libro III dell'Imitazione di Cristo.
(524) Off. Confess. Pont..
(525) S. AUG., Contra Juliamun, lib. IV, cap. III