P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
La salvezza delle anime nostre, unita mente alla gloria di Dio, è la causa finale degli abbassamenti di GESÙ e di tutti i suoi Misteri. Si è umiliata per espiare la nostra superbia, la quale è «il principio e la fonte di ogni peccato» (Eccles. 10, 15); e per insegnarci, col suo esempio, a diventare umili (136), perché l’umiltà è la condizione necessaria onde ricevere la divina grazia, con la quale dobbiamo operare la nostra salvezza.
Ma, se noi consideriamo l’Umiltà di GESÙ, nella sua ragione intrinseca e nella sua essenza stessa, dobbiamo dire che la causa prima degli abbassamenti del nostro DIO fatto uomo per nostro amore, furono la giustizia e la verità.
Avremo, senza dubbio, notato che la umiltà di GESÙ porta due caratteri, perfettamente distinti: da una parte l’amore dell’oscurità, dall’altra l’amore dell’abiezione. GESÙ si fissa, in certo modo, in questi due stati: oscurità e abiezione; e manifesta apertamente che vi si compiace, come se gli fossero propri, come se realmente la sua condizione naturale in questo mondo consistesse nell’evitare di comparire, nel ricercare di essere dimenticata e nell’accettare, senza lamenta e senza resistenza, ogni umiliazione e ogni obbrobrio. Tale doppia disposizione, in GESÙ, e le circostanze esterne della sua vita che vi corrispondono, sono talmente evidenti, che non è possibile di non rimanerne colpiti.
Sappiamo, per altro, che Nostro Signore non si è ingannato in nulla; non v’è stato nessun eccesso nella sua vita; quindi, le sue disposizioni e i suoi stati sono essenzialmente nell’ordine; tutto vi è saggio, giusto e perfettamente vero. Egli stesso dice: «Io sono la Verità».
Orbene, ecco come si rischiara, per noi, alla luce della fede il mistero della sua umiltà.
Nostro Signore non è venuto in questo mondo che per essere Sacerdote e Vittima del Padre suo. In questo sta tutta la sua missione; e, in fatto, con l’adempimento di tale missione Egli ha raggiunto tutti i fini della sua Incarnazione. Orbene, per essere Sacerdote e Vittima, era necessario dapprima che fosse creatura; perché GESÙ CRISTO, dice sant’Agostino, esercita il suo Sacerdozio e diventa la Vittima di Dio unicamente perché è uomo (137). Ecco, in verità, la prima condizione del Verbo Incarnato: è creatura. Questa proposizione sarebbe da riprovarsi carne infetta d’eresia ariana; ma nessuno s’inganna riguardo al nostro pensiero, quando diciamo che, facendosi uomo, Nostro Signore è diventato creatura.
Seconda condizione di GESÙ: Egli è creatura che deve essere offerta a Dio, offerta in modo incessante e perpetuo, quindi fissata sull’altare della Maestà di Dio e sempre in presenza della Gloria infinita, della Santità, della Verità, dell’Essere di Dio. Per conseguenza ancora, GESÙ, nella sua qualità di creatura unita al Verbo è Vittima di lode, di adorazione, Vittima, per dir tutto in una parola, di universale Religione. Inoltre, il Verbo viene in questo mondo per espiare i nostri peccati; è la Vittima che al Padre offeso offre una espiazione e una soddisfazione perfettamente adeguate alle esigenze della Maestà divina.
Orbene, queste tre condizioni ci rivelano la profondità degli abissi nei quali il nostro Dio è disceso nella sua umiltà. 1. – Nostro Signore ha voluto e necessariamente ha dovuto essere, nella sua umanità, creatura come noi. Orbene, la creatura, per se medesima, nella sua intima natura, nella propria e originaria condizione che è come la sua essenza, è un essere che esiste non da se stesso ma per la potenza di un altro, il quale è Dio solo. Essa è ens ab alio: Dio solo è Ens a se. Ne risulta che, prima d’uscire dal nulla (se pure è lecita una tale singolare espressione), essa in tutta verità, è niente. Una volta uscita dal nulla, essa per la potenza e la volontà di Dio suo Creatore, è qualche cosa; ma, per se stessa, è sempre niente.
Dopo la sua creazione, essa persevera nell’essere che ha ricevuto, ma non già per propria virtù o energia, bensì per il benigno volere di Dio; da se stessa, di sua natura, essa non cessa d’essere niente. La sua condizione, in tutti i suoi stati, quali che siano, rimane assolutamente dipendente. Dio la tiene nelle sue mani; né sarebbe necessario ch’Egli portasse un decreto perché essa fosse annichilita, basterebbe che cessasse dal crearla. Come il sasso, che tengo in aria con la forza del mio braccio, cade da se stesso a terra, senza ch’io faccia nessun sforzo per gettarvelo: così la creatura, e tutto quanto essa è, e tutto quanto fa, scomparirebbe nell’abisso del nulla, se Dio non la sorreggesse continuamente nell’esistenza.
È verità di fede, che le creature non possono cessare d’esistere, perché Dio si è impegnato, con la sua parola, a conservarle sempre nell’esistenza, e la parola di Dio sta in eterno (138); ma questa parola, Dio l’ha data liberamente; questa parola, data con piena libertà, unitamente all’onnipotenza divina che ne eseguisce gli effetti, è quella che sorregge nell’eterna vita i Santi e gli Angeli, la Vergine santissima stessa, e persino la Umanità gloriosa dì GESÙ.
La conclusione dì questa dottrina, e san Paolo insiste perché non la dimentichiamo, è questa, che la creatura non può gloriarsi di nulla (I Cor 4, 7), né del suo essere, né delle sue qualità; neppure può gloriarsi dei suoi meriti, sia naturali che soprannaturali, perché li acquistò unicamente con l’aiuto di soccorsi essenzialmente gratuiti e necessari: il tempo, l’intelligenza, la grazia divina; e ciò induce sant’Agostino a dire che Dio «coronando i nostri meriti, corona i suoi propri doni» (139).
La creatura, non solo non può gloriarsi di nulla, ma, se ha l’intelligenza e il sentimento della condizione del proprio essere, dovrà sentirsi naturalmente inclinata a stare nel suo vero posto; il suo vero posto sarebbe il niente, ma essa non può più scendere così basso, perciò deve almeno mettersi in ciò che si avvicina al nulla, e quindi nel silenzio e nell’oscurità. Che se la Provvidenza nei suoi disegni sopra di essa, o le creature libere per effetto della loro volontà, l’avvicinano al nulla, essa trova che un tale stato depresso è per se medesima la verità, l’ordine, il bene; ne gode anzi, come si gode di ciò che è ordine, verità e bene.
Orbene, chi mai ha avuto la comprensione del nulla dell’essere creato, come il Figlio di Dio? Chi, come Lui, ha compreso che un tal essere per se stesso è niente, non possiede nulla, non è capace di nulla? che perciò tutto quanto lo inclina verso il niente, lo riconduce appunto alla sua origine, e quindi a ciò che gli conviene e gli è dovuto? Su tutte queste verità, GESÙ aveva la pienezza della luce; Egli vedeva il niente del suo essere creato; e, perché amava ogni verità, si compiaceva in questo riconoscimento; amava questo stato di abiezione e, amandolo, Egli era umile, non solo di spirito, ma pure di cuore, praticando per il primo quanto ci insegna nel Vangelo. E perché la sua condotta esteriore era l’espressione fedelissima dei suoi sentimenti interni, tutto nella sua persona era umile: parole, contegno, azioni di ogni sorta. Senza la dottrina che qui richiamiamo, sarebbe strana questa parola: «Se glorifico me stesso, la mia gloria è un niente» (Mt 11, 29; Gv 8, 54). L’umiltà è la luce, la luminosa intuizione della Verità; ed è la vita di un’anima che opera secondo questa luce. Santa Teresa ha detto: «L’umiltà, è la verità». Perciò GESÙ, «in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio (Col 2, 3), che è Lui stesso la luce del mondo e lo splendore della Luce eterna» (Gv 1, 9; 8, 12; Sap 7, 26), è stato la più umile di tutte le creature. Dopo GESÙ, ammiriamo la perfetta umiltà in MARIA che possedeva l’infallibile intelligenza della verità; poi in san Giuseppe, in san Giovanni Battista, negli Angeli e nei Santi del cielo. Questi sono umili più che mai, ora che «veggono Origene (Ps. 35, 10), perché Egli è creatura, e lo sa; ma è creatura.
Sulla terra, le anime che maggiormente godono delle chiarezze della fede e la cui intelligenza vede con maggior evidenza la realtà delle cose, le anime che sentono queste luminose chiarezze e le seguono nella loro condotta, sono, nella Chiesa, le anime più umili. Gli orgogliosi sono ciechi, ignoranti e stolti. Ahimè! quanto sono numerosi! Lo Spirito santo ha detto che il numero ne è incalcolabile (Eccle 1, 15).
GESÙ è umile, è l’umiltà stessa, secondo il pensiero di ogni verità nella luce medesima di Dio» (140), per essere, in tale condizione, la Vittima di Dio.
II. – Il Verbo incarnato; nella sua qualità di creatura e di vittima, (stava sempre, davanti al Padre suo, in istato di adorazione. Spieghiamoci. Fin dal primo istante della sua esistenza creata, Egli si era presentato al Padre, e dopo non cessava mai di contemplare, nella luce stessa della gloria, la Maestà eterna e infinita di un tal Padre, suo Principio, suo Autore, suo Tutto; stava così davanti a Lui, per istato e per vocazione, per dovere e per amore, ad ogni istante senza interruzione alcuna. Quali potevano essere i sentimenti di GESÙ consacrato in tal modo Vittima? Con quale Religione doveva Egli riconoscere quel Tutto eterno, immenso, infinito, Lui che, nella sua sostanza creata, era veramente un niente, ma in pari tempo possedeva l’essere più perfetto che fosse mai uscito dal nulla? Non è possibile concepire la Religione del Verbo divino, se non come il più profondo, universale e assoluto annientamento. L’atto esterno col quale intendiamo esprimere a Dio la nostra sudditanza, è la prostrazione in stato di adorazione. L’atto interno deve dunque essere una prostrazione di tutto 1’essere; e che cosa è mai la prostrazione dell’essere, se non ciò che rassomiglia a un vero annientamento? Considerato separatamente, l’essere sembra aver qualche importanza, come una luce piccola non è senza splendore in mezzo alle tenebre. Ma, in presenza dell’Essere increato, che cosa è l’essere creato se non una impercettibile luce trasportata nello splendore di un sole di estate? Che cosa diventa essa?… se fosse dotata di sentimento, che cosa domanderebbe se non d’estinguersi, per onorare con tale suo annientamento il glorioso fulgore dell’astro del giorno?
In tal modo GESÙ, luce creata nella sua umanità, benché superiore ad ogni altro splendore creato, scompariva davanti alla Grandezza e Maestà del Padre suo, per onorarlo con tale annientamento nel modo più sensibile e più degno che fosse possibile. Non già che non riconoscesse i doni sublimi che aveva ricevuti. L’umiltà, essendo verità, non può consistere nel negare ciò che, in noi, è opera di Dio. Tale opera, bisogna riconoscerla, anzi proclamarla se occorre, ma alla condizione di «non gloriarsi che in Dio e non mai in noi stessi» (I Cor 1, 31; II Cor 10, 17), e di fare omaggio, finalmente, di tutto quanto siamo, del nostro essere e delle sue qualità, a Colui che solo ne è il Principio e al quale ne spetta tutta la gloria.
Il paragone della luce di cui abbiamo detto, ci ricorda una delle più belle pagine di Bossuet (141): «Mi sono alzato, nel mezzo della notte, con Davide, per contemplare i vostri cieli che sono l’opera della vostra mano, la luna e le stelle che Voi avete stabilite.
«Che cosa ho veduto, o Signore? e quale immagine ammirabile della vostra luce infinita! Il sole si avvicinava, e la sua venuta si manifestava mediante un celeste e bianco chiarore che si diffondeva da ogni parte; le stelle erano scomparse. La luna si era levata col suo disco di un argento così bello e così vivo, che gli occhi ne erano incantati. Pareva che volesse onorare il sole, mostrandosi chiara e illuminata nel lato che stava a lui rivolto; tutto il resto era oscuro e buio; solo un piccolo semicerchio riceveva, in quel lato, dai raggi del sole come dal padre della luce, un fulgido splendore. Quando il sole la guarda da quel lato, essa riceve un colore di luce: e più egli la vede, più se ne accresce la luce. Quando la vede per intera, essa è nel suo pieno; e maggiore è la luce di cui essa gode, più fa onore a lui che ne è la fonte.
«Ma ecco un nuovo omaggio, ch’essa rendeva al suo celeste illuminatore: a misura che il sole si avvicinava, io la vedevo scomparire; il debole semicerchio a poco a poco diminuiva; e quando il sole fu comparso per intero, la pallida e debole luce svaniva e si perdeva in quella del grande astro nella quale veniva come assorbita. Si riconosceva chiaramente che se aveva perduta la sua luce, ciò non era che per la comparsa del sole; l’astro minore cedeva il posto al maggiore, perché una luce piccola si confondeva nella maggiore; e il semicerchio non comparve più nel cielo, dove prima esso teneva tra le stelle un posto così brillante».
Quell’astro inferiore che, nella notte, compare illuminato dalla luce del sole, è l’Umanità santa di GESÙ nelle magnificenze della sua creazione, magnificenze che sono il riflesso della Luce eterna e increata; ma questo astro medesimo, che «rende un nuovo omaggio al suo celeste illuminatore» con la sua progressiva scomparsa davanti allo splendore di esso, è quella Umanità medesima consacrata Vittima di adorazione davanti a Dio, la quale, per così dire si annienta sempre più, sino alla perdita assoluta di ogni splendore, e persino di ogni visibilità nei Mistero dell’Eucaristia.
(136) Ne ergo dedignaretur homo imitari hominem humilem, Deus factus est humilis, ut vel sic superbia generis humani non dedignaretur sequi vestigia Dei. S. AUG., In Psalm. XXXIII.
(137) Sacerdos propter carnem assumptam, propter victimam quam pro nobis offerret, acceptam. In Psalm., CIX
(138) Un gran numero di filosofi. anche cristiani, e molti teologi di vaglia ammettono che la ragione sola non può dimostrare, in modo rigoroso, l’immortalità assoluta dell’anima. E’ dubbio se Leone XIII abbia voluto condannare questa opinione; è lecito pensare che il termine immortales, nell’Enciclica Humanum genus, possa intendersi in modo più largo, nel senso della pura sopravvivenza dell’anima al corpo. – Nota dell’editore.
(139) Deus, cum coronat nostra merita, quid aliud coronat quam dona sua? Ex S. Aug., Caelestin. Papa, ad Episcopos Galliae.
(140) Ipse Christus est natura virtutum, ipse enim justitia quae humano generi non in plenitudinem splendoris advenit, quia Jesus Christus seipsum exinanivit forma Dei, ut formam servi acciperet. – ORIGEN., In Psalm., XXXVIII.
(141) Traité de la Concupiscence, chap. XXXII