«LA
DIREZIONE SPIRITUALE»
DI P. R. PLUS S.J.
CAPITOLO VII
Le lettere di direzione.
Ve n’è una quantità immensa. Le une dottrinali (Mons. D’Hulst); altre
più psicologiche (S. Framcesco di Sales); altre più descrittive (P.
Didon); le une contengono consigli generali e servono per un certo numero di anime
(S. Vincenzo de’ Paoli); altri hanno di mira casi particolari (come le lettere del
Padre de la Colombière a S. Margherita Maria). Talora la corrispondenza spirituale
non è che una parte più o meno considerevole dell’attività totale
dell’apostolo (Mons. Dupanloup); altre volte, invece, come fu per Mons. Gay, è,
a partire almeno da una data epoca, l’apostolato capitale, se non proprio l’unico.
Ora ci possiamo domandare se vi sia dell’utilità nelle lettere di direzione.
Esse permettono alla persona diretta di vedere più chiaro nel suo caso, dovendo
sforzarsi a descriverlo; le forniscono, nella risposta del direttore, un testo, sul
quale può riflettere. La grande obiezione, che vien fatta da alcuni, si è
che queste lettere fanno perdere un tempo considerevole. Certo, bisogna sapersi
prodigare anche per un’anima sola; ma conviene esaminare se vi è proporzione
tra lo sforzo che si deve fare e il frutto che si raccoglierà da parte della
persona interessata, o ancora, tra lo sforzo richiesto in quel caso particolare e
il bisogno che risulta dall’insieme. Occorrerà quindi pesare il rendimento,
senza ristrettezze, ma anche senza concessioni.
Leggendo le lettere di direzione, magnifiche del resto, di Mons. D’Hulst, non possiamo
sottrarci a questa riflessione. Ecco un nuovo straoccupato, assillato dal lavoro,
come dice egli stesso, a cui una penitente strappa più di cinquecento lettere
in ventun anni, cioè più di due al mese. Per poco che il direttore
abbia qualche altra cliente così esigente, possiamo immaginare il tempo, non
diremo perso, ma adoperato. E ancora in questo caso le lettere formano un volume,
che prolunga oltre la destinataria il bene, che avrebbe dovuto servire a lei sola;
ma considerando soltanto il profitto della persona interessata, chi vorrebbe pretendere
che Mons. D’Hulst non avrebbe potuto usare meglio il suo tempo in una occupazione
d’importanza più generale? Certamente non lo si osa affermare, perché
un’anima sola, specialmente se ha le qualità richieste per diventare una santa,
è «una diocesi abbastanza grande»; ma, insomma, la domanda ce
la possiamo rivolgere.
Mons. Gay confessa: «Ecco la settima lettera che scrivo questa mattina».
La sua corrispondenza spirituale, che non comprende se non una parte delle lettere
scritte alle persone da lui dirette, consta di quattro volumi di cinquecento pagine
ciascuno. Del P. d’Alzon si hanno settemila lettere, ma ne scisse quarantamila, non
tutte però di direzione; l’abate Frémont spediva in media trecento
lettere al mese, per la maggior parte di direzione; il P. Didon a Corbara confida
alla signora Commanville [1] il 25 aprile 1880, che quello stesso giorno aveva ricevuto
diciotto lettere. Le lettere spirituali di S. Francesco di Sales, edite circa dieci
anni dopo la sua morte, occupano più di mille pagine in ottavo e dire che
molto è stato tolto e abbreviato; le lettere del Bossuet formano almeno quindici
volumi. Se la santità dei corrispondenti o delle corrispondenti si potesse
misurare dall’inchiostro usato, dovremmo dire che fu davvero considerevole. Ma è
stato proprio sempre questo il caso?
Chi lo potrebbe credere? Il Bossuet, che c’immagineremmo più dominatore e
più padrone della situazione, supplica quasi alcune sue penitenti, troppo
crudelmente filiali, perché abbiamo un po’ più di moderazione nel chiedere
consigli. Nel periodo più acuto delle discussioni sul Quietismo, quando il
vescovo di Meaux lavorava giorno e notte per raccogliere documenti e costruire il
suo lavoro, Enrichetta d’Albert de Luynes trova che egli non risponde abbastanza
lungamente alle sue domande. Egli cerca allora di perorare la sua causa, invoca un
esempio, che essa capirà certamente: «Ricordatevi» – scrive egli
– «del santo vescovo Fruttuoso, il quale sulla strada del martirio rispose
a chi lo sollecitava di pregare per luiÖ Devo pregare per la santa Chiesa Cattolica,
sparsa su tutta questa terraÖ». La signora d’Albert o non afferrò l’allusione,
o, se l’afferrò, non se ne diede per inteso.
Un’altra penitente, la signora de Mans, mostra maggior pietà per il vescovo;
e divide in due il suo foglio di carta, scrivendo a destra le domande e lasciando
a sinistra lo spazio libero per la risposta. Non consoliamoci troppo presto, perché
troviamo che il 27 maggio 1701 essa gli fa trentaquattro domande; e Bossuet, molto
saggiamente, allinea di fianco le sue trentaquattro risposte. Si giudichi dalla ventunesima:
«Si possono fare pasticcini nei giorni di festa e nelle domeniche?».
Evidentemente queste non sono regioni dove volano le aquileÖ [2].
Anche S. Vincenzo de’ Paoli risponde qualche volta alle domande di Luisa Marillac
con brevi note alla fine delle sue lettere o sui margini: metodo questo, che abbiamo
voluto citare quantunque non possa sempre essere seguito.
* * *
Praticamente che cosa convien
fare?
Prima di tutto si deve scrivere in vista della solo gloria di Dio: – ìPiaccia allo
Spirito Santo di ispirarmi ciò che devo scrivervi – incomincia S. Francesco
di Sales una sua lettera alla signora de la Baume, il 9 aprile 1618 [3]; ed esplicitamente
o implicitamente i veri uomini spirituali dormulano la medesima preghiera.
Conviene in secondo luogo essere sobri: «A mio giudizio le lunghe, frequenti
lettere di direzione fanno più male che bene» – scrive Dom Marmion [4].
Esse facilitano e mantengono la passività del penitente e rischiano di creare
relazioni troppo strette fra direttore e diretto.
Con le donne si deve lasciare poco spazio al sentimento: «Le donne amano sentirsi
ridire, ciò che già sanno. Se si è già loro provato il
proprio affetto con i fatti e con i servizi, bisogna ancor ripeterlo loro con le
parole. Non ho mai potuto capire, a che cosa serva» [5]. Bisogna evitare di
lasciar adoperare o adoperare un vocabolario troppo affettuoso, sdolcinato e che
indebolisce; il Fènelon, per esempio, è troppo tollerante sotto questo
rispetto, e dice alla signora de Guyon: «Non prendetevi soggezione ed usate
con me tutti i nomi che vi sentite spinta a darmi». E la signora abuserà
del permesso fino a usare nomi puerili e assai spiacevoli [6]. S. Francesco di Sales
capisce, durante un ritiro del 1616, quanto avrebbe guadagnato modificando certe
espressioni nella sua corrispondenza, pur così casta, con Santa Chantal. E
ancora in questo esempio si tratta di un santo; con quanta maggior ragione varrà
il nostro consiglio, quando non si tratta di un caso così eccezionale!
Chi non lo segue, incorrerà in gravi inconvenienti, il minore dei quali sarà
lo stupore del lettore, qualora la corrispondenza venisse pubblicata e divulgata.
Santa Chantal ebbe un sussulto di pudore inquieto, quando, ancora viva, sentì
che si volevano pubblicare le lettere del vescovo di Ginevra; perché temeva
che agli occhi del pubblico non preparato potessero apparire troppo vibranti di sollecitudine
affettuosa [7]. Quando furono pubblicate le Lettere di direzione del P. L.
[8], l’Ami du clergè notò giustamente. «Ecco un modello
di lettere di direzione, che non si devono scrivere mai».
Con le donne non si devono mai fare confidenze personali. Si deve rimanere unicamente
sacerdoti; l’uomo con la sua intima storia, con la descrizione delle sue occupazioni,
dei suoi disegni, delle sue malattie, deve comparire il meno possibile. «Darsi»
non è un punto sinonimo di «abbandonarsi». – «Ho sempre
rimpianto di essermi dato troppo» – scrive Mons. D’Hulst, a cui si rimproverava
la sua freddezza. – «Dopo venticinque anni di esperienza, che hanno dato motivo
a questo rimpianto, non si è certamente pronti a convertirsi dalla freddezza
esteriore» [9]. – A questa impersonalità, che non deve però avere
nulla di rigido, è opportuno aggiungere una certa fermezza. L’abate Huvelin
osserva giustamente: – «Con molte anime si deve prendere l’iniziativa della
direzione; per sostenerle si deve essere esigenti» [10]. – Anche questa altra
osservazione ha il suo valore: – «La donna, quella del mondo, come quella del
chiostro, ama che le si parli con autorità» [11]. – Questa fermezza,
che sarà sempre soprannaturale e intelligente, non deve mai cambiarsi in caporalismo;
e sarà bene ricordare quanto già abbiamo scritto intorno allo stretto
dovere si salvaguardare l’indipendenza delle anime.
NOTE
[1] Cfr. T. I, p.76.
[2] Mons. Lavallèe, Petites études d’âmes chrétiennes,
Vitte, pp. 14-42.
[3] Tome XVIII, Annecy, p. 209.
[4] Lettera del 21 novembre 1919, Vie, p. 264.
[5] Mons. D’Hulst, citato dal Baudrillart, Introd. alle Lettres de Direct.,
p. VII.
[6] Masson, Fènelon et Madame Guyon, pp. 151-153; 283-298.
[7] Fr. Vincent, S. François de Sales directeur d’àmes, pp.
503-507.
[8] Revue de Paris, 15 aprile, 1° maggio 1906.
[9] Introduction aux lettres di direct., p. VII.
[10] Quelques directeurs d’âmes au XVII siècle, p. 194: notare
che non si deve comandare con intemperanza o brutalità, ma in nome di Dio.
[11] Mons. Cagnac, Lettres, I, 225.
testo tratto
da: Rodolfo Plus S.J., La direzione spirituale. Natura – necessità – metodo,
Torino: Marietti, 1944/2, pp. 134-140.