P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
CAPITOLO SETTIMO. L'umiltà – suo primo fondamento: la nostra condizione di creature
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L'Umiltà è virtù meravigliosa, misteriosa del pari e semplice; virtù profonda, potente ed estesa, altrettanto facile a conoscersi come difficile a praticarsi; così oscura quaggiù, più oscura ancora nel suo trionfo in cielo; virtù universale e richiesta da tutte le altre; virtù necessaria ad ogni stato e ad ogni grado della vita cristiana; virtù che è l'essenza e come, la sostanza della grazia sacerdotale: chi dice Sacerdote, dice Umiltà.
Se avremo la fortuna di intenderne l'eccellenza, di lasciarci vincere dalle sue attrattive, dalla sua grazia così pura, e infine di fame la consigliera, la direttrice, l'amica e la compagna assidua della nostra vita, noi possederemo un carattere infallibile di Predestinazione; poiché sta scritto: Humilibus dat gratiam… Humiles spiritu salvabit (474).
L'Umiltà è quella virtù, la quale, fondata sulla conoscenza di Dio e di noi stessi per mezzo della Fede, ci porta ad abbassarci, dimenticando, anzi disprezzando noi medesimi. Così da varie parole: dei Padri e dei Dottori della Chiesa (475).
L'Umiltà, quindi, è Figlia della Fede; e, perché la Fede è una partecipazione della luce eterna, nella quale gli Eletti vedono l'essenza divina e, in questa, ogni cosa; la luce di Dio è pure il principio dell'Umiltà. Non è dunque una virtù cieca e ingannevole. Essa invece è piena di chiarezze, ed è infallibile nei suoi giudizi. L'Umiltà vede, da una parte, Dio con tutte le sue perfezioni; dall'altra, il nulla delle creature e i disordini causati dalla loro perversa volontà. Dio è tutto per essa, e in essa tutto è sottomissione a Dio (476): la creatura le appare come un nulla in se stessa, e come degna, nella sua perversità, di abiezione e di disprezzo.
L'Umiltà è quindi in un modo ammirabile una virtù dello stato di Ostia, poiché, con lo sguardo fisso sopra la grandezza di Dio e il nulla della creatura, sottomette, in modo assoluto, la creatura a Dio.
Essa non vuol veder altro che quel Tutto divino e assoluto, e vuole che non vi sia gloria che per Lui. L'Umiltà ha fatto dire quella bella parola d'un Profeta: Domino Deo nostro Justitia: nobis autem confusio faciei nostrae (Bar 1, 15), e ha dato occasione a quest'altra più magnifica ancora: Si ego glorifico meipsum, gloria mea nihil est (Gv 8, 54). Sotto questo aspetto, essa diventa una virtù universale. Per l'Umiltà, tutte le opere nostre, tutte, senza nessuna eccezione, vengono riferite a Dio; nulla, assolutamente nulla ne resta per noi, perché non siamo nulla, non possiamo nulla, non abbiamo diritto a nulla. Si potrebbe persino dire che l'Umiltà è la sostanza di tutte le virtù. La Fede è un atto di umiltà della nostra mente che, senza comprendere, aderisce e si assoggetta alla Rivelazione di Dio; la speranza è l'attestato della nostra insufficienza assoluta per acquistare e possedere certi beni che non possiamo ottenere che dalla promessa affatto gratuita di Dio; la Carità verso Dio, -consiste nel dimenticarci e disprezzarci, smettendo di amare noi stessi per amore dell'oggetto amato (477). La Carità verso il prossimo, se è vera, non è altro che abnegazione. La penitenza non esisterebbe senza Umiltà, e neppure la mortificazione, la pazienza, la dolcezza e la castità (478). Perciò san Leone dice che, per parlar propriamente, «l'Umiltà comprende tutta la vita cristiana» (479).
«La via (per giungere alla Verità), dice sant'Agostino, in primo luogo, è l'Umiltà; in secondo luogo, l'Umiltà; in terzo luogo, l'Umiltà; e se mi interrogate ancora, ad ogni domanda risponderò sempre: l'Umiltà… Che ne ricaveremo noi di tutto il bene che avremo fatto, se la superbia riesce a rapircelo, insinuandovi la sua compiacenza? Gli altri vizi sono da temersi perché ci fanno commettere tante violazioni della legge, ma la superbia è da temersi persino nella virtù, onde ciò che vi è lodevole in noi non sia perduto per il piacere di esserne lodati» (Epist. CXVIII).
I Padri apprezzano in tal modo l'eccellenza e la necessità dell'Umiltà, che, in tutti gli eventi penosi della nostra vita, e persino nel peccato, non sembrano vedere, nei peccatori, come nei giusti, altro che disposizioni evidenti della divina Provvidenza, per farci praticare l'Umiltà, e, con tale mezzo, farci giungere alla salvezza; quasichè, nel caso particolare in cui Dio tollera il peccato, questo Padre infinitamente desideroso del bene delle anime nostre, dia maggior importanza alla salvezza delle sue creature, alle quali il peccato può giovare in quanto le umilia, che non alla sua propria gloria, la quale dal peccato viene offesa e diminuita. Sant'Ambrogio, sant'Agostino, san Gregorio Magno, san Giovanni Crisostomo hanno esposto una tale dottrina in modo ammirabile (480).
Primo fondamento dell'Umiltà: la condizione di Creatura.
Dio solo è l'Essere che esiste e sussiste da se medesimo. La creatura, per parlare propriamente, non è, ma solo esiste; vale a dire che l'essere ch'essa possiede, viene da un altro, e non può sussistere da se stesso. Sotto l'Essere di Dio non v'ha nulla che lo sostenga, niente altro che questo medesimo Essere, necessario, immutabile. Sotto la creatura, invece, v'è la mano di Dio che la sorregge e la conserva nell'esistenza; e sotto la mano di Dio, se si può parlar così, vi è il nulla, sopra del quale la creatura sta sospesa senz'altro sostegno che la volontà del Creatore. Dimodochè la creatura per se medesima, è un nulla, tende al nulla e vi ritornerebbe, se Dio non continuasse l'atto creatore.
Tutto questo, come già fu detto (481), si applica pure ai Santi del cielo, alla Madonna, e persino (mistero profondo!) all'Umanità santa del Figlio di Dio. L'unione ipostatica è un Mistero indefettibile e eterno, la gloria di Maria SS. ma, e dei Santi è stabile come la gloria stessa della SS.ma Trinità. Ma ciò che sorregge essenzialmente sia l'essere dei Santi come l'essere creato del Verbo, non è la gloria, sia pure meritata dalla loro virtù, e neppure la gloria della unione che il Verbo ha contratta, in GESÙ CRISTO, con la umana natura: è unicamente l'Essenza divina, l'Azione divina, sempre la medesima e sempre attuale.
Abbiamo detto che il trionfo dell'Umiltà sta nel cielo; lassù, infatti, essa trova la sua ultima perfezione. In cielo, nella luce stessa di Dio, i Santi vedono, senza possibile oscurità, che solo l'Essere divino è e si sorregge da sé, e che tutto il resto, assolutamente tutto, possiede un essere solamente ricevuto in prestito, un essere che sussiste unicamente in virtù della comunicazione di Dio e di una creazione incessante.
Intendiamo noi in tal modo l'Umiltà? Siamo persuasi che l'Umiltà non è altro che il perfetto buon senso, e l'ordine essenziale? Non si tratta qui né di ascetismo, né di perfezione spirituale, ma di giustizia, di verità e di elementare filosofia cristiana.
Che cosa è dunque la superbia? Una vera pazzia, e, per dir tutto, una vera assurdità.
La superbia arriva troppo tardi: per essa non c'è posto. Noi siamo creature; nulla ci è permesso a vantaggio del nostro amor proprio e della nostra gloria personale. Non è possibile che un'unica gloria: quella di Dio solo. Questo è il diritto di Dio e diritto incomunicabile. Egli stesso lo ha dichiarato in queste parole: «Io sono il Signore: ecco il mio nome; a nessun altro darò la mia gloria» (Is 42, 8).
Ogni gloria va a Dio come al suo ultimo fine in cui unicamente riposa, tanto necessariamente e essenzialmente quanto è necessario e essenziale che Dio sia Dio. Perciò la superbia è una specie di negazione di Dio, e da questo derivano il disordine e la mostruosità di un tal peccato (482).
La superbia è sovranamente odiosa in qualsiasi uomo; lo sarebbe molto di più in un'anima sacerdotale: non potrebbe starvi se non lottando contro la luce, e detronizzandovi, con onta maggiore, la Verità (Gv 8, 44), perché nessuno conosce, come noi, la dottrina che abbiamo qui ricordata. Guardiamoci dall'imitare Lucifero; conserviamoci sempre umili.
Nel nostro ministero come in tutta la nostra condotta, non vi sia mai nulla che sia presunzione, amor proprio ferito, vana compiacenza o mira segreta di stima umana. Nelle relazioni con le anime, sia che ci conforti la loro devozione o ci offenda la loro malizia, conserviamo ad ogni costo la stessa umiltà nei pensieri, nei sentimenti e nelle intenzioni; affinché se abbiamo qualche buon successo la gloria ne sia tutta per Dio; e se ci capitano insuccessi, non cadiamo in peccato per scoraggiamento o per tristezza, e neppure per rancore, disprezzo o ira contro chi ci offendesse.
È difficile essere umili nei buoni successi; non lo è meno nella umiliazione; ma questa è molto più favorevole per dare radici profonde alla nostra Umiltà ancor debole. Non vi è vera Umiltà senza l'amore dell'oscurità: quale grazia preziosa quella che ci aiuta a nasconderci, per mezzo della sfavorevole opinione delle creature a nostro riguardo! Non ci resta più allora che di amare il nostro stato e quanto fanno gli uomini per metterci e mantenerci in tale stato. Questo amore che è l'effetto della Grazia, non è altro che il compimento della nostra tendenza naturale a ritornare nel nulla; a questa tendenza risponde l'amore dell'annientamento agli occhi degli uomini, e le dà il carattere pratico che le conviene. Non possiamo più essere annientati, con un ritmo reale, nel nulla assoluto; e allora, tendere almeno a non essere che nulla in ogni cosa, e trovarci contenti quando le creature ci mettono nei nulla, questo è adempire una legge e fissarci in uno stato vero, giusto ed esattamente corrispondente al nostro fondo naturale (483).
In tal modo si spiega quell'insaziabile bisogno di scomparire e d'essere dimenticati, che notiamo nei Santi e soprattutto nel Santo dei Santi. Dopo l'esempio di GESÙ, tutti quelli che ricevono con maggior abbondanza la sua grazia, portando in sé quel peso che li inclina verso il nulla. La Vergine SS. è meravigliosamente nascosta; così pure san Giuseppe e san Giovanni Battista; così ancora i Santi tutti. In san Vincenzo de' Paoli ammiriamo uno dei più splendidi modelli di tale disposizione. Di lui si diceva «che non vi era mai stato ambizioso così appassionato per in alzarsi e arrivare al sommo degli onori, come il sig. Vincenzo lo era al contrario per abbassarsi, scomparire agli occhi d'egli uomini, e rendersi abietto e spregevole» (484). «Egli sembrava aver posto il suo tesoro in quella virtù, ricercando accuratamente ogni occasione per praticarla, e trovando il modo di umiliarsi. in qualsiasi incontro». Una delle sue massime più care era questa:
«Quando farò qualche azione pubblica, ne toglierò tal cosa o tal altra che potrebbe dare qualche lustro all'opera mia o alla mia persona. Quando parlerò su qualche argomento, di due pensieri che mi verranno alla mente, per umiliarmi esporrò quello che vale meno a meno che la carità mi obblighi a far diversamente; e il più bello lo riterrò per sacrificarlo a Dio nel segreto del mio cuore. Perché Nostro Signore non viene e non si compiace se non nell'umiltà del cuore e nella semplicità delle parole e degli atti» (485).
NOTE
(474) l Petr., V, 5, – JACOB., IV, 6 – Proverb., III, 34. – Ps.. XXXIII, 19.
(475) Humilitas est virtus, qua homo, verissima sui cognitione, sibimetipsi vilescit. – S. BERNARD., De gradibus humil.
(476) S. TH., II, II, q. CLXI, a. 1.
(477) Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptutn Dei, caelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui. – S. AUG., De Civit. Dei, lib. XIV, cap. XXVIII.
(478) Custos virginitatis charitas; locus autem hujus custodis humilitas. – S. AUG., De Sancta Virg., cap. 41. – Cfr.: Sap., VIII, 21.
(479) Tota christianae sapientiae disciplina, in vera et voluntaria humilitate consistit, quam Dominus Jesus Christus ab utero Matris usque ad supplicium crucis… et elegit et docuit. – S. LEO, Sermo XXXVII, In Epih. solemni, VII.
(480) Subvenit infirmitas ne grati a in periculum verteretur: utili or ergo infirmitas quam gratia. – S. AMBR., Apologia I David, cap. II et alibi passim. – S. Aug. docet superbiam occisorum Christi… postea atrocitate sceleris sui confusorum, in ipso peccato quasi in probrosissimo medicamento invenisse curationem. In Joanni Evangel. tract. LIII. – Etiam quibus magna dona tribuit Deus, parva quaedam reprehensibilia relinquit, ut semper habeant, quod mentem non erigant. – S. GREG. MAG., Dialog., III.
(481) V. Libro I, capitolo XVI.
(482) Cfr.: S. TH, II, II, q. CLXII, a. 6 et a. 7.
(483) Cfr.: De Imit. Christi, lib. IlI, cap. XIV.
(484) Vita, lib. III
(485) Vita, lib. I