P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
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LIBRO TERZO
LE VIRTU' SACERDOTALI
L'UNIONE A GESÙ CRISTO
CAPITOLO OTTAVO. L'umiltà – Secondo e terzo fondamento: il nostro titolo di cristiani e il nostro stato di peccatori
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Se la condizione di creature ci dà la ragione per la quale dobbiamo essere umili, la condizione di cristiani ci suggerisce l'amore che sarà il peso dal quale saremo trascinati sino al fondo dell'umiltà, l'amore verso GESÙ CRISTO. Pondus meum, amor meus, dice sant'Agostino (486).
Nostro Signore è l'Umiltà medesima, è questo, più che ogni altro, il carattere della sua vita; non solo perché, secondo Origene, Egli è «la sostanza di tutte le virtù», ma perché l'umiltà è come il carattere dominante della sua santità. Questo carattere esterno va sempre aumentando durante i trentatré anni, e dopo si perpetua nel Mistero della Eucaristia. Quando san Paolo dice: Hoc sentite in vobis quod et in CRISTO JESU, qui… semetipsum exinanivit (487), non ci rivela forse questa verità, che GESÙ CRISTO è l'Umiltà? l'opera della nostra Redenzione è un'opera tutta di umiltà. «La vittoria che il Salvatore ha riportata sul demonio e sul mondo, dice san Leone, fu provocata dall'umiltà e consumata nell'umiltà. La nostra causa era persa; essa fu vinta, in virtù del privilegio dell'umiltà del nostro Dio» (488).
Orbene, questa abbondante grazia di umiltà, grazia che trova si in tutto l'essere di GESÙ, grazia caratteristica di tutti i suoi Misteri, è appunto quella ch'Egli ci comunica nel Battesimo. La grazia che è in noi, è quella medesima che è in Lui; non è un'altra grazia, non è nemmeno una grazia solamente simile, ma è identicamente la medesima: «Il nostro Capo, dice sant'Agostino, fonte della grazia, diffonde se stesso in ciascuno dei suoi membri. Ea gratia fit ab initio fidei suae homo quicumque. Christianus, qua gratia Homo ille ab initio suo factus est Christus: de ipso Spiritu est ich renatus, de quo est Ille natus (489).
Noi siamo consacrati umili, come siamo consacrati cristiani e figli adottivi dì Dio. Che questa disposizione e questo carattere della nostra nuova vita siano il fine voluto dal nostro Redentore, nel salvarci, nell'istruirci coi suoi esempi e neI farci parte della propria pienezza, è verità anche questo che forma un oggetto notevolissimo dell'insegnamento dei Padri.
«In paradiso defecit humilitas, dice sant'Ambrogio, ed ideo venit e caelo» (490). E sant'Agostino: Puderet te fortasse imitari humilem hominem, saltem imitare humilem Deum. Ille Deus factus est homo; tu homo, cognosce quia es homo.
E altrove, commentando questa parola del Salvatore, Ego sum via: Via Christus humilis. Quae enim causa humilitatis Christi, nisi infirmitas tua?.. Quo tu ire non potuisti ad eum ille venit ad te; venit docens humilitatem (491).
E tutto ciò è opera dell'amore: «L'amore. dice sant'Agostino, ha reso umile GESÙ CRISTO; l'amore lo ha fatto scendere dal Cielo (492).
Come Capo dunque, GESÙ CRISTO ci dà, a noi suoi membri, dell'abbondanza della sua umiltà; come Dottore, ci insegna la sua umiltà; e la comunicazione che ce ne fa, come l'insegnamento che ne porge, è frutto dei suo immenso amore. Dobbiamo dunque investirci dei sentimenti e delle disposizioni di GESÙ CRISTO e portare esternamente la sua immagine, l'immagine della sua umiltà, che, secondo san Paolo e i Padri, è pure il contrassegno dei Predestinati (493).
Qui, non più la logica inesorabile, che deriva dalla condizione di creature, ci invita all'umiltà, ma l'amore richiesto dalla nostra qualità di cristiani. Per rassomigliare e piacere a GESÙ, per vivere della sua vita intima, staremo ben attenti a non permetterci mai nessun sentimento di stima di noi medesimi, né di compiacenza nelle opere nostre; ma, nel nostro interiore, tutto sarà annientamento di noi stessi, come in GESÙ tutto era annientamento davanti al Padre suo; l'unico indirizzo di tutto quanto avviene in noi, sarà la gloria e l'onore di Dio. Quando poi ci colpirà l'umiliazione, qualunque ne sia la causa, non solamente l'accetteremo, ma l'ameremo; vi ci attaccheremo con gioia, a motivo della somiglianza lontana senza dubbio, ma sempre amabile, ch'essa ci dà col nostro Salvatore. Portare il segno dei lineamenti di GESÙ CRISTO di cui sta scritto: Et vidimus eum, et non erat aspectus (Is 52, 2); aver parte in qualche modo a quegli stati dei quali Nostro Signore medesimo parla per mezzo del suo Profeta: Ego sum vermis et non homo; opprobrium hominum et abiectio plebis (Ps 21, 7), è cosa che procura all'anima che ama GESÙ, intime e profonde gioie. La povertà, l'infermità, tutto quanto rende spregevole la persona, tutto ciò per quell'anima è un bene dei più preziosi. I suoi difetti medesimi, e, dobbiamo dirlo? persino i suoi peccati, le sembrano occasione di profitto spirituale; non già, evidentemente, in se medesimi, ma in quanto questi disordini l'umiliano, l'abbassano e la inducono al disprezzo di se stessa. È questo il pensiero di sant'Agostino in quell'assioma spesso citato: Omnia cooperantur in bonum, etiam peccata (494).
Così, dobbiamo dire anche degli insuccessi; questi non affliggono l'anima umile se non perché, in causa di essi, Dio riceve minor gloria. Ma l'ignominia che le apportano, ne provoca cantici di riconoscenza. È questo lo spirito di GESÙ (495).
L'umiltà, senza l'amore dell'umiliazione, è come una pianta. senza succo, o con un pezzo d'oro che non porta l'effige del sovrano. L'amore dell'umiliazione è uno strano mistero: la nostra natura decaduta e sempre orgogliosa, non vorrebbe saperne; ma esso viene operato in noi dalIa grazia del Battesimo, quando non sia impedita. Ché se in un'anima sacerdotale questa grazia non avesse libera azione, quale disgrazia e quale ingiuria a Dio!
Regola di ogni cosa deve essere la gloria di Dio. A questa regola invariabile e inflessibile, dobbiamo sottoporre tutti i nostri atti e desideri. Ma bisogna aggiungere: dove travasi la gloria di Dio, se non nelle disposizioni interiori e negli stati esterni che siano una copia esatta di quelli di GESÙ CRISTO «nascosto, disprezzato, l'ultimo degli uomini, colpito da Dio e umiliato?» (Is 53, 2-4). E chi mai come il Sacerdote deve conoscere intimamente Nostro Signore? Chi mai deve penetrare nel segreto dei suoi disegni sopra delle anime nostre, di ciò ch'Egli vuol operare in noi, e della parte che vuole darei della sua vita e dei suoi sentimenti? Chi mai deve possedere l'intelligenza di quelle grandi parole di san Paolo: Mihi vivere Christus est (Fil 1, 24) se non colui che è un altro GESÙ CRISTO? Questo Maestro adorabile non è lungi da noi. «Egli abita in noi mediante la fede» (Ef 3, 17) vale a dire, mediante la conoscenza vera delle operazioni della sua grazia nelle anime nostre; tale abitazione santa viene confermata in noi con lo zelo nel riprodurre in noi i suoi sentimenti, le sue intenzioni, i suoi pensieri, i suoi atti e i suoi stati. Non cessiamo mai dal domandare la grazia di ottenere questa scienza e di lasciarci rapire dal fascino dell'austera, ma sublime bellezza dell'umiltà e delle umiliazioni del nostro Dio. Oh! come tale stato interiore conviene al Sacerdote! Chi deve, come lui, stare unito a GESÙ, portarne l'immagine e diffonderne la virtù?
Ad ogni modo, se per disgrazia l'amore non ci commuovesse, quell'amore che secondo san Paolo, eccita il cuore «di cui gli occhi sono illuminati» (Ef 1, 18), ecco, riguardo alla necessità di accettare le umiliazioni e gli obbrobri, un'altra considerazione che non ammetterebbe contraddizione.
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Il nostro stato di peccatori. – Il peccato originale è già un gran motivo di confusione. Quali tenebre! Quale ignominia! Quale disgrazia! È uno strano mistero questo, che urta la nostra ragione. La Chiesa dovette dire ad un essere ignobile e perverso che sembrava possederci quale padrone: Exorcizo te, immunde' spiritus,… ut escas, et recedas ab hoc famulo Dei… Maledicte damnate!… Omnis spiritus immunde!… Quale orrore e quale onta!
Ma, abbiamo noi conservato l'innocenza del nostro Battesimo? Ché se, per disgrazia, abbiamo qualche volta perduto l'amicizia del nostro Dio col peccato grave, in quel giorno funesto abbiamo meritato l'inferno. Quale parola: Meritare l'inferno! Ne intendiamo forse noi tutto il senso? Se scavassimo bene questa idea ne rimarremmo atterriti. Che cosa è l'inferno?.. Che cosa vuol dire essere dannato?… Il peccato mortale!… non fosse che uno solo!… Se la morte fosse venuta a colpirci, in quel tal giorno.. noi saremmo sepolti in quella eterna ignominia spaventosa e intollerabile. Se non siamo dannati in fatto, abbiamo meritato di esserlo: Misericordiae Domini, quia non sumus consumpti (Thren., III, 22); ma niente altro che una tale misericordia, così paziente da trarre dai cuori più duri lacrime eterne di riconoscenza e di amore, niente altro ci ha preservati. Meditiamo questa parola di Bossuet: «Il peccato bastava a far morire un Dio. Ma come mai, con questo veleno nelle viscere, potrebbero sussistere uomini mortali? No, no, non viviamo più che per miracolo. Quella potenza divina che ha trattenuto miracolosamente l'anima di GESÙ, è quella medesima che, con un medesimo prodigio, trattiene anche la nostra» (496).
Forse che la nostra vita non è stata macchiata che da colpe veniali? È raro che un'anima possa rendere a se stessa questa testimonianza. Ad ogni modo, perché i nostri peccati furono solamente veniali? Non siamo capaci di mantenerci nella grazia, più di quanto lo siamo di mantenerci nell'essere naturale. Non sufficientes sumus… sed sufficientia nostra ex Deo est (497). E inoltre, il peccato veniale è forse un male di così poca importanza? Non sarà nulla ferire il cuor d'un Dio e rendere inutili i meriti della Passione di GESÙ CRISTO? Quante volte abbiamo predicato che il peccato veniale, in se stesso, sorpassa tutti i mali dell'ordine naturale!… Per altro, vi sono dei peccati veniali, che si avvicinano al mortale. V'è poi uno stato d'anima nel quale abbondano i peccati veniali: è lo stato di tiepidezza. Non è forse il nostro?.. E, in tal caso, che cosa meritiamo noi in realtà? Non meriteremo, vogliamo sperarlo, le ignominie dell'inferno; ma anche senza di tali orrori, quanti altri obbrobri? (498).
Oltre i peccati commessi, vi sono in noi disposizioni e inclinazioni che ci spingono al peccato. A lato poi del peccato volontario e delle tristi inclinazioni a commetterlo, vi sono i nostri difetti, le miserie morali, tutte le imperfezioni della mente, del cuore, della volontà e del carattere. Quante illusioni! Quanti sbagli! Quanti sentimenti che mancano di nobiltà e delicatezza! Quante incostanze! Quante incoerenze! Forse, quante bassezze, quante viltà nell'intimo di noi stessi, che, se fossero visibili, ci coprirebbero di confusione! Eppure, questo è il nostro fondo.
Altra sorgente di umiliazioni, è il nostro corpo; «questa massa di fango, come dice Bossuet, che si copre con qualche ornamento, a motivo dell'anima che vi abita… e che dopo un brevissimo termine, ricadrà nella bassezza primiera della sua naturale corruzione» (499). Origine, sviluppo, decadenza, morte di questa carne dove il peccato sembra aver la sua residenza; e infine, quello stato informe, «quel non so che, senza alcun nome in nessuna lingua…» (500)! Quali abissi di abiezione, nei quali sembra che il nostro orgoglio dovrebbe sparire per sempre!
Meditiamo queste parole di san Basilio:
Haes est homini sublimitas, haec gloria, gloriam a Domino gloriae quaerere… Nihil tibi relictum est, homo, de quo gloriari possis, cum gloriatio et spes in ea sita sit, ut tuas omnes voluntates mortifices et futuram in Christo vitam quaeras… Quid igitur teipsum extollis quasi propria habeas bona, cum gratias pro donis agere debeas Largitori?.. Tu Christum, non per tuam apprehendisti virtutem, sed te Christus per suum adventum… An ideo superbis, quia honore affectus es, et acceptam misericordiam ad occasionem arrogantiae rapis?… Gratiam sequitur Judicium, et quo pacto usus sis donis, Judex requiret (501).
Note
(486) Conf. XIII, cap. IX.
(487) Non ego te… ut discas humilitatem, ad publicanos et peccatores mitto qui tamen in regno caelorum praecedunt superbos… sed ad Contemptum a filiis hominum… Eum certe humilem non iniquitas sed charitas fecit. – S. AUG., De Virginitate, cap. XXXVII. – Philipp., II, 5.
(488) Sermo XXXVII, In Epiph., VII.
(489) De praedestin., sanct., cap. XII.
(490) In Psalm., CXVIII, sermo VIII.
(491) Sermo CXLII, cap. II.
(492) De Virginitate, cap. XXXVII, n. 38. – De caelo descendit pondere charitatis.
(493) Rom., VIII, 29. Cognoscimus qllod evidentissimum reproborum signum superbia est; ac contra humilitas, electorum. – S. GREG. MAGNUS, lib. XXXIV, cap. ultimo.
(494) Qui deviant et exhorbitant, etiam hoc ipsum eis facit proficere in bonum, quia humiliores redeunt atque doctiores. – De corrept. et gratia, cap IX.
(495) Tertulliano ha detto che Gesù fu un bravo impudente e un felice stolto: Bene impudentem et feliciter stultum. De carne Christi, cap. V. Bossuet traduce: «impudente di buona specie».
(496) I Sermon sur la Passion.
(497) II Cor.. III, 5. Neppure i Santi del Cielo, i quali sono gloriosamente e indefettibilmente confermati nella grazia sono impeccabili intrinsecamente. Solamente Dio, solamente la natura divina, è intrinsecamente indefettibile nella santità.
(498) Licet frigidus sit pejor tepido, tamen pejor est status tepidi; qui a tepidus est in majori periculo ruendi sine spe resurgendi. – CORNEL. A LAPID., In Apoc., III, 16.
(499) Pensées, etc. XXXII.
(500) Cadit in originem terram et cadaveris nomen, ex isto quoque nomine peritura, in nullum inde jam nomen, in omnis jam vocabuli mortem. – TERTULL., De resurrectione carnis, n. 4. – BOSSUET, Oraison funèbre d'Heriette d'Angleterre.
(501) Homilia de Humilitate