Non colitur Deus nisi amando. Nella Religione ciò che v’è di più santo e di più sublime, è l’amore. È questa la cima alla quale l’anima si eleva per contrarre con Dio l’unione più stretta. «La carità si unisce a Dio per riposare in Lui medesimo, non già per ritrarne qualche vantaggio; perciò essa è più nobile che la fede, la speranza e tutte le altre virtù» (S. TH., II-II, q. 23, a. 6.). Così parla san Tommaso. Del resto è questo un oracolo di san Paolo (I Cor 13, 13).
L’amore di Nostro Signore GESÙ CRISTO per il Padre suo! Chi mai potrebbe parlarne degnamente? Tutto in GESÙ è ugualmente perfetto in sommo grado; ma Egli ha voluto che nel suo stato di Ostia risplendessero le disposizioni più sublimi, più meravigliose e più sante, e particolarmente vi risplendesse la carità.
San Dionigi chiama la carità una forza che unifica, raduna e concentra, in modo eccellente, nel Bello e nel Bene (111). Quella forza divina, quel movimento impetuoso e dolce, quel trasporto amoroso e tenero, pieno di gioia, di una gioia estatica. (112), era la vita costante della nostra adorabile Vittima; vita, tutta di amore per il Padre suo. In GESÙ adoriamo l’amore verso il Padre nei suoi quattro aspetti: compiacenza, riconoscenza, benevolenza e condoglianza.
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L’amore di Compiacenza è quello che deriva dalla contemplazione della Bellezza infinita, immutabile ed eterna, sempre nuova e sempre antica (113) dell’Essere divino, con le sue ineffabili perfezioni, con i suoi profondi, gloriosi ed essenziali attributi, con la sua vita intima, ossia la vita della Trinità, con le sue opere esterne, in una parola: dalla contemplazione di Dio. In tale contemplazione l’anima riposa, gode, non ha consolazione, contentezza, sentimenti di trasporto, felicità e vita, se non nella cognizione intima e certa, nella vista chiara e sicura di quella Bellezza eterna, di quel Bene indefettibile ed eterno; sotto l’influenza di tale soprannaturale visione essa dimentica quanto non è il suo Dio; in tutto l’essere suo si compiace che Dio sia quella Bellezza e quel Bene ch’essa contempla, benché sia intimamente persuasa che, quando si tratta di Dio, quel poco che si conosce è niente a confronto dì ciò che si ignora, perché l’Essere divino possiede una immensità di amabilità infinite assolutamente impenetrabili a qualsiasi sguardo creato (114).
Ma, che Dio sia ciò che Egli è, così grande e potente, così santo e libero, così bello e assoluto nel suo Essere: Dio! che possiede il proprio Essere da se stesso, essendo necessariamente, sostanzialmente Padre, Figlio e Spirito Santo; insomma, che Dio sia Dio, e non solo che Dio sia Dio (se è lecito usare un tal linguaggio), ma che essendo ciò che è, Egli sia a se stesso la propria gloria, la propria lode, la propria beatitudine, dimodochè, in ogni evento, Dio basti a sé, Dio sia contento in se medesimo, Dio trovi eternamente e essenzialmente in se stesso, tutto quanto. forma la suprema felicità… ecco il godimento dell’anima che lo conosce e si innalza a Lui per l’amore; ecco il suo trasporto, la sua dolcissima compiacenza, la sua inesprimibile gioia.
Molte anime – le anime dei santi – hanno sperimentato un tal amore. Ma come parlare dell’amore di Compiacenza del nostro Sacerdote, della nostra Ostia, di GESÙ? Egli era sempre in presenza del Padre suo, appunto nella sua qualità di Sacerdote e Ostia; e il suo sguardo, nella chiara luce, non già soltanto di una fede viva, ma della Gloria medesima, contemplava senza velo la suprema e gloriosa Bellezza dell’Essere divino. Soltanto nell’eternità ci sarà dato di contemplare qualcuno dei secreti dell’amore di Compiacenza che inondava, trasportava, consumava quel Cuore adorabile. Ma fino a quel momento non ne sapremo nulla. San Dionigi ha detto: «L’amore è estatico, e, sotto un tale impero, colui che ama non appartiene più a sé, ma all’oggetto del suo amore» (115). E soggiunge: «Il grande san Paolo, posseduto dall’amore divino, e dalla violenza di questo amore rapito in estasi, esclamava con una voce deificata: «Non sono più io che vivo». Ecco il vero amante, trasformato in Dio, ut qui excessit Deo, vivente non più della propria vita, ma della vita sovranamente cara dell’oggetto del suo amore».
«L’anima che esercita l’amore di compiacenza, grida incessantemente nel suo sacro silenzio: A me basta che Dio sia Dio, che la sua bontà sia infinita, e la sua perfezione immensa. Poco mi importa ch’io viva o muoia, poiché il mio diletto vive eternamente di una vita tutta trionfante. La morte non può rattristare un cuore, il quale sa che il suo Amore sovrano è vivente. All’anima che ama, basta che Colui che essa ama più di se stessa sia colmo di eterna beatitudine; poiché essa vive più in Colui che ama, che non nel corpo che informa, essendo che veramente non è essa che vive, ma il suo diletto che vive in lei» (116).
L’estasi di san Paolo era d’una grande bellezza soprannaturale, eppure che cosa è essa mai in confronto delle elevazioni, dei trasporti, della gioia dell’anima di GESÙ? dell’anima di GESÙ che contemplava la Bellezza dell’Essere divino, e amava questo Essere divino secondo tutta la forza della sua visione e della sua scienza? Queste, infatti, erano in certo qual modo infinite in Gesù, a motivo della luce stessa principio di tale scienza, che era Dio, e a motivo pure della natura stessa del suo amore, che era lo Spirito Santo? Perché l’amore con cui Nostro Signore amava in tal modo suo Padre, era lo stesso Spirito Santo con cui lo ama eternamente. Certo, ciò è vero anche per noi; il nostro amore soprannaturale per Dio, è quello stesso amore col quale le Persone divine si amano a vicenda, e questo amore è lo Spirito Santo; ma noi amiamo senza vedere la Bellezza dell’oggetto amato; il nostro amore per Dio è imperfetto, come la nostra scienza. GESÙ invece amava secondo tutta la conoscenza che aveva delle amabilità del Padre suo; e tale conoscenza, attinta dalla Visione beatifica medesima, necessariamente era senza velo e senza ombra, e pertanto perfettissima.
Vi era dunque nella nostra dolce Vittima, ciò che noi chiameremmo una continua estasi di gioia, alla vista di tante perfezioni infinitamente amabili; ma, qui ancora, adoriamo, benediciamo il nostro Dio e Salvatore, per essersi degnato di lasciarci intravvedere sì ammirabili magnificenze della sua vita umana; e sospiriamo l’Eternità per contemplare, non più «in enigma, ma faccia a faccia», tali divini splendori.
Noi ammiriamo con vero stupore, nell’anima beata di GESÙ, quell’incomparabile beatifico rapimento in presenza delle amabilità di suo Padre ch’Egli sempre contemplava, sempre lodava e sempre amava; quella compiacenza universale ch’Egli provava. in tutto l’essere suo, nel suo spirito, nel suo cuore e nella sua volontà, per la delizia, il trasporto e l’ebbrezza della contemplazione di tale spettacolo eternamente bello; ma come si conciliava tutto ciò col dolore, con la tristezza e la desolazione che Egli provava. sul Calvario ed anche durante la sua vita?