Penitenza di Gesù – Vittima di espiazione

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA

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CAPITOLO DICIOTTESIMO. Penitenza di Gesù – Vittima di espiazione

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    La Penitenza è quella virtù che ci fa odiare il peccato commesso, in quanto è offesa di Dio. Ci porta pure a dare soddisfazione a questo Dio di amore con ogni sorta di espiazioni, e ci induce al fermo proposito di non più peccare in avvenire.
    Intesa così in tutta la sua estensione, la Penitenza evidentemente non può convenire che a creature personalmente peccatrici, e non a Colui che è «il Santo». Ma, considerata in quella disposizione particolare che porta a voler dare a Dio soddisfazione per le offese che gli vengono fatte, non solo conviene a GESÙ CRISTO, ma trovasi in Lui più che in qualsiasi creatura, poiché Egli è l’«Agnello, la Vittima che porta i peccati del mondo», li porta per espiarli e in tal modo offrire a Dio la perfetta soddisfazione che gli è dovuta.
    Le sue umiliazioni hanno espiato la nostra superbia: la sua Penitenza ha espiato la nostra sensualità. Si potrebbe dire, infatti, che il peccato ha due sorgenti: l’una nello spirito, la superbia; l’altra nella carne e in quella parte dell’anima che la Scrittura chiama carne (Gn 4, 3; Gal 5, 17), la sensualità. E, per verità, se vogliamo portarci all’origine della nostra concupiscenza, ossia alla caduta del nostro primo padre, vedremo nella sua colpa questi due principali caratteri: la superbia: «Voi sarete come Dei»; la sensualità: «La donna vide che il frutto era buono a mangiare e gradevole all’aspetto».
     La Penitenza ha due aspetti: la privazione e l’afflizione. Come privazione, essa chiama in aiuto la povertà, e la unisce a se stessa, per compiere l’opera di riparazione che deve fare; come afflizione, essa diventa l’amore al patire. In tal modo, l’anima penitente è sempre veramente povera, e si compiace nel patire.
     GESÙ, Vittima espiatoria, fu per eccellenza il Povero e  l’Uomo di dolore.

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     I. – La povertà di GESÙ. – Era stata sovente annunciata dai Profeti (Zc 9, 9). Il Vangelo l’attesta con frequenza: Pannis eum involvit: quia non erat eis locus in diversorio… Et hoc vobis signum: Invenietis infantem pannis involutum… Ut darent hiostiam… par turturum, aut duos pullos columbarum… Filius hominis non habet ubi caput reclinet… Accepto corpore, Ioseph, posuit illud in monumento suo… (143). La povertà del nostro Dio è un mistero dell’intera sua vita, dall’indigenza del presepio sino alla nudità della croce. Ma essa trionfa sopratutto nei giorni della sua santa Infanzia, e in particolar modo a Betlemme. Povertà universale, penosa, abietta: tutti questi caratteri vi si trovano riuniti. Sono noti i trasporti di gioia e di amore, di compassione e di tristezza, che tale delizioso e commovente mistero eccitava nel Poverello di Assisi. Tutti i santi, per altro, hanno sentito una irresistibile attrattiva per tanta indigenza e tali privazioni.
     Quale fu la causa della povertà di GESÙ? Dapprima l’amore della nostra Redenzione. Occorreva espiare il nostro attacco disordinato e peccaminoso ai beni della terra; era necessario, con un esempio splendente, insegnarci a disprezzare questi beni terreni, che in se medesimi non sono che vanità e afflizione di spirito. Bisognava, inoltre, meritarci le ricchezze della grazia e della eterna gloria. Ce lo insegna san Paolo: «Vi è nota, dice, la grazia del Signor nostro GESÙ CRISTO, il quale, essendo ricco, si è fatto povero per voi, affinché foste arricchiti dalla sua povertà» (2 Cor 8, 9).
     Ma vi sono altre cause altrettanto intime, anzi forse più intime ancora. GESÙ Vittima non poteva essere ricco: Essendo Egli, davanti alla Maestà del Padre suo, Vittima di adorazione, di lode e di congratulazione, – quella Bellezza eterna che lo ispirava, e che Egli adorava, contemplava e lodava, quel Bene che è «tutto il bene» -come Dio medesimo chiama se stesso (Es 33, 18-19), occupava il suo spirito, il suo cuore, tutto il suo essere in modo così assoluto, ch’Egli non poteva badare a «quella frivolezza» che è la vita presente; questo è evidente (Sap 4, 2). Tuttavia, se fosse stato soltanto Vittima di adorazione e di lode, si può pensare che avrebbe dovuto possedere tutti i beni esteriori di questo mondo; li avrebbe posseduti quale Padrone sovrano nella qualità di Creatore; ne avrebbe goduto come Re del creato, nella sua qualità di Uomo Dio. Non ebbe forse il primo Adamo questo possesso e questo godimento? Ma, perché il primo Adamo aveva meritato di perdere tutto, tanto nell’ordine della grazia come in quello della natura, appunto per questo il secondo Adamo che veniva a riparare tutto con la soddisfazione prestata a Dio offeso, doveva rimanere privo di ogni bene temporale. Vittima costituita al posto di tutti i pescatori, Egli doveva subire il castigo meritato dai peccatori. Questo castigo consisteva dapprima nella più estrema povertà. Il peccatore aveva disprezzato il Bene supremo, col separarsene per darsi al peccato; aveva rifiutato i beni della grazia e della amicizia divina per portarsi verso la creatura e verso se medesimo; doveva perciò essere punito con la privazione universale di tutti i beni temporali. «I demoni, dice san Gregorio, non possiedono nulla in questo mondo» (144). La povertà dei dannati è orribile; non si può immaginare una miseria sì spaventosa, e il peccatore, se non è dannato di fatto, lo è già di diritto, e dovrebbe già essere confinato «in quella terra di miseria» (Gb 10, 22).
     GESÙ essendo «quel santo caritatevole, quel misericordioso delinquente» che si è messo al posto di tutti i peccatori, ha dovuto quindi essere privo di tutto in questo mondo, «nascere nella stalla dove si ricoverano gli animali, vivere senza aver un luogo dove riposare il suo capo, morire spoglio di tutto, e venir sepolto in una tomba che non era sua» (145).
     In GESÙ CRISTO, nulla è solamente sublime o eroico, tutto è divino. La sua povertà è degna di un Dio fatto uomo; di un Dio che capisce quali sono i beni veraci; di un Dio che vuole meritare agli uomini questi veri beni, liberandoli dalla schiavitù alla quale li ha ridotti l’amore dei beni perituri e fallaci; di un Dio che vuole dare al Padre suo, con una tal indigenza, una soddisfazione che copra il disordine dell’ambizione e della cupidigia delle sue creature. (altro…)

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Umiltà di Gesù, vittima di espiazione

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA


CAPITOLO DICIASSETTESIMO. Umiltà di Gesù, vittima di espiazione

   


Mistero più stupendo ancora! GESÙ, Vittima di espiazione, accetta con amore anzi ricerca con irresistibile inclinazione, il disprezzo, l’obbrobrio e l’ignominia.
     GESÙ è Vittima di espiazione. Questo, significa che GESÙ, fino dal primo istante della sua vita, ha preso sopra di sé tutte le iniquità della Terra. Ha preso questo carico e lo ha portato, perché suo Padre «gliel’ha imposto» (Is 53, 6); e GESÙ, con un inesprimibile amore verso la volontà infinitamente adorabile del Padre, e per la redenzione delle nostre anime, ne ha accettato il peso spaventevole. Ma in qual senso GESÙ ha portato sopra di sé le nostre iniquità? Nei senso più assoluto. Tutte le abominazioni del mondo gli furono imputate, come se le avesse commesse Lui stesso. Nulla ha potuto macchiare la sua Santità indefettibile e inalterabile. Egli è rimasto «il Santo, 1’Innocente, l’Immacolato, essenzialmente segregato dai peccatori» (Eb 7, 26) e libero da qualsiasi peccato. Eppure, in virtù di quella imputazione misteriosa, opera incomprensibile della potenza, della sapienza, della giustizia e della misericordia di Dio, il Padre lo ha considerato come il peccatore universale, l’unico colpevole della terra – più ancora, secondo una strana parola di san Paolo, il Padre lo ha considerato e trattato come se fosse il peccato medesimo. Eum qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit (Deus) (II Cor 5, 21).
     Ne consegue che, in tale spaventosa condizione, GESÙ meritava tutti i rigori ed i colpi dell’ira e della vendetta divina. Perché, in forza di un decreto della Giustizia eterna, il peccato doveva essere punito e vendicato secondo tutto il rigore del suo merito.


    Ma che cosa si meritano il peccato e il peccatore che lo commette?
    Abbassiamo, per un istante, i nostri sguardi verso l’inferno. Laggiù il peccatore viene castigato, nella giustizia e nella verità; e notiamo che san Tommaso ci insegna che nella condanna dei colpevoli si esercita ancora l’indulgenza del Padre: Etiam in damnatis misericordia locum habet, in quantum citra condignum puniuntur (Suppl. q. 99, art. 2). Così pure Bossuet: «La soddisfazione di GESÙ CRISTO giova indirettamente anche ai dannati, e Dio ne prende occasione per mettere nei loro supplizi, per così dire, un po’ della sua misericordia». ­ «Dio, per amore di GESÙ CRISTO castiga i dannati ed anche i demoni meno del loro merito, e di tale mitigazione essi sono debitori ai meriti infiniti di GESÙ CRISTO; questi davanti a Dio pesano più della loro ingratitudine» (Lettres diverses).
    Orbene, qual è lo stato del peccatore nell’inferno? Chi potrà dirci ciò che è un dannato? Chi dipingerà l’orribile deformità, l’avvilimento estremo di un’anima nella quale, per così dire, non vi è più traccia dell’opera di Dio, non vi è più né ordine, né armonia, né bene qualsiasi (Gb 10, 22)? È il male in tutto il suo orrore ripugnante e detestabile. Finché travasi sulla terra, il peccatore non lascia trasparire tale estrema umiliazione; ma in realtà, già la porta dell’anima; e se gli capitasse una morte improvvisa, si può dire che scenderebbe nell’inferno come nel luogo che gli conviene, dove sarebbe veramente al suo posto, senza bisogno di una sentenza di Dio per precipitarvelo.
    Quale stato ignominioso è dunque quello di un disgraziato peccatore! Un tale stato naturalmente e necessariamente è l’oggetto dell’odio di Dio. Nella sua Santità Dio lo odia, lo condanna, lo respinge mentre la sua misericordia lo protegge; ma non dipende dal peccatore di non essere schiacciato dai tremendi colpi dell’amore offeso, e precipitato per sempre nell’inferno. Dell’inferno ei merita la schifosa ignominia e le pene spaventose. (altro…)

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Cause della umiltà in Gesù

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA


CAPITOLO SEDICESIMO. Delle cause della umiltà in Gesù ­  La sua condizione di creatura – La sua qualità di vittima di adorazione

 


    La salvezza delle anime nostre, unita mente alla gloria di Dio, è la causa finale degli abbassamenti di GESÙ e di tutti i suoi Misteri. Si è umiliata per espiare la nostra superbia, la quale è «il principio e la fonte di ogni peccato» (Eccles. 10, 15); e per insegnarci, col suo esempio, a diventare umili (136), perché l’umiltà è la condizione necessaria onde ricevere la divina grazia, con la quale dobbiamo operare la nostra salvezza.
     Ma, se noi consideriamo l’Umiltà di GESÙ, nella sua ragione intrinseca e nella sua essenza stessa, dobbiamo dire che la causa prima degli abbassamenti del nostro DIO fatto uomo per nostro amore, furono la giustizia e la verità. 
      Avremo, senza dubbio, notato che la umiltà di GESÙ porta due caratteri, perfettamente distinti: da una parte l’amore dell’oscurità, dall’altra l’amore dell’abiezione. GESÙ si fissa, in certo modo, in questi due stati: oscurità e abiezione; e manifesta apertamente che vi si compiace, come se gli fossero propri, come se realmente la sua condizione naturale in questo mondo consistesse nell’evitare di comparire, nel ricercare di essere dimenticata e nell’accettare, senza lamenta e senza resistenza, ogni umiliazione e ogni obbrobrio. Tale doppia disposizione, in GESÙ, e le circostanze esterne della sua vita che vi corrispondono, sono talmente evidenti, che non è possibile di non rimanerne colpiti.
    Sappiamo, per altro, che Nostro Signore non si è ingannato in nulla; non v’è stato nessun eccesso nella sua vita; quindi, le sue disposizioni e i suoi stati sono essenzialmente nell’ordine; tutto vi è saggio, giusto e perfettamente vero. Egli stesso dice: «Io sono la Verità».
    Orbene, ecco come si rischiara, per noi, alla luce della fede il mistero della sua umiltà.
    Nostro Signore non è venuto in questo mondo che per essere Sacerdote e Vittima del Padre suo. In questo sta tutta la sua missione; e, in fatto, con l’adempimento di tale missione Egli ha raggiunto tutti i fini della sua Incarnazione. Orbene, per essere Sacerdote e Vittima, era necessario dapprima che fosse creatura; perché GESÙ CRISTO, dice sant’Agostino, esercita il suo Sacerdozio e diventa la Vittima di Dio unicamente perché è uomo (137). Ecco, in verità, la prima condizione del Verbo Incarnato: è creatura. Questa proposizione sarebbe da riprovarsi carne infetta d’eresia ariana; ma nessuno s’inganna riguardo al nostro pensiero, quando diciamo che, facendosi uomo, Nostro Signore è diventato creatura.
    Seconda condizione di GESÙ: Egli è creatura che deve essere offerta a Dio, offerta in modo incessante e perpetuo, quindi fissata sull’altare della Maestà di Dio e sempre in presenza della Gloria infinita, della Santità, della Verità, dell’Essere di Dio. Per conseguenza ancora, GESÙ, nella sua qualità di creatura unita al Verbo è Vittima di lode, di adorazione, Vittima, per dir tutto in una parola, di universale Religione. Inoltre, il Verbo viene in questo mondo per espiare i nostri peccati; è la Vittima che al Padre offeso offre una espiazione e una soddisfazione perfettamente adeguate alle esigenze della Maestà divina.
     Orbene, queste tre condizioni ci rivelano la profondità degli abissi nei quali il nostro Dio è disceso nella sua umiltà. (altro…)

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Umiltà di Gesù – Carattere universale

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
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SACERDOTE E OSTIA

CAPITOLO QUINDICESIMO. Umiltà di Gesù –  Carattere universale e sempre crescente  della pratica di questa virtù nella nostra vittima

 

    Il Padre Bourgoing in Le verità e eccellenze di Gesù Cristo ha scritto: «In quella guisa che san Giovanni ha dato la definizione di Dio, dicendo. che è la Carità, Deus charitas est (I Gv 6, 8): così si può dire che GESÙ CRISTO Uomo Dio, è la Umiltà ». E a conferma cita san Paolo, il quale, infatti, sembra fornire lui stesso gli elementi di tale definizione, quando. scrive ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di GESÙ CRISTO, il quale mentre aveva la forma e la natura di Dio, non credette che fosse una rapina il suo essere eguale a Dio: ma annichilò se stesso, presa la forma e la natura di servo» (Fil 2, 5-7).
    Tale concetto della vita e dei misteri del Verbo incarnata ci sembra degno di nota per la sua verità. Qual’è, infatti, in GESÙ CRISTO, il carattere esterno più manifesto, più universale e più costante, che, se si può dir così, va sempre crescendo nella sua manifestazione e nella sua soprannaturale bellezza, se non la umiltà? Noi sappiamo che la Religione, la pazienza, la dolcezza, la mortificazione lo accompagnano in tutti i suoi misteri; ma non è sempre in una maniera apparente e visibile; mentre l’umiltà è la sua compagna continua nelle diverse fasi della sua vita, sempre visibile e evidente, sempre più crescente, e non solo visibile ed evidente, ma rivestita di caratteri sempre più manifesti.
     Non si tratta qui, lo si comprende, della sua umiltà interiore, la quale era troppo perfetta perché potesse accrescersi: ma di quella umiltà esterna, espressione della sua umiltà interiore, la quale si manifestava sempre più agli uomini, a misura che si compivano i divini Misteri della sua vita mortale, della sua vita glorificata e della sua vita eucaristica.
    Consideriamo, le une dopo le altre, le principali circostanza della vita del Salvatore. (altro…)

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Amore di condoglianza in Gesù

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA


CAPITOLO QUATTORDICESIMO. Amore di condoglianza in Gesù –  Ancora dello zelo della gloria di Dio e della salvezza delle anime


Ciò che dicesi dell’amor di benevolenza verso Dio, deve pur dirsi anche dell’amore di Condoglianza. Dio ha diritto ad una sua gloria esterna e ad una beatitudine accidentale. Noi gli auguriamo l’una e l’altra, e lavoriamo perché non ne rimanga mai privo. Che se la nostra volontà ottiene buona riuscita, procuriamo allora a Dio quella consolazione della quale parlano i Libri Sacri: Dominus Deus… consolabitur in nobis (2 Mac 7, 6).
Ma, in quella guisa che trova soggetto di gioia in quelli che lo servono, il Signore risente pure, per causa di coloro che lo offendono, intima e profonda tristezza. Ce lo insegna la Scrittura (Gn 6, 6). I lamenti di Dio vi si trovano frequenti, soprattutto nei libri dei Profeti. Dio è afflitto. I peccati degli uomini s’innalzano sino a Lui e feriscono il suo Cuore, mentre ne provocano la collera (Is 1, 2-24; 65, 2; Ger, 2; Rm 10, 20).
Senza dubbio, Dio rimane immutabile nella sua pace e nella sua beatitudine (129); ma il peccato che è contrario a tante adorabili perfezioni: alla verità di Dio, alla sua Santità, alla sua Sapienza, alla sua Maestà, al suo Amore, a tutti i suoi diritti di Creatore, il peccato, un disordine, un male ch’Egli respinge, condanna e odia di un odio infinito; e quest’odio, nel cuore di un padre che vede, nei suoi propri figli, gli autori di tale iniquità e di tanta ingratitudine, di un tal disordine immenso, è appunto la misteriosa afflizione, la profonda tristezza di cui parlano i Libri sacri.
 


Orbene, questa tristezza di Dio e l’abominevole peccato che ne è la causa, hanno fatto versare lagrime abbondanti a tutti i santi. «…Chi darà acqua alla mia testa, esclamava Geremia, e una fontana di lagrime ai miei occhi» (Ger 2, 19; 11, 1)? l’amor tenero e filiale rende inconsolabili i figli di Dio che rimangono fedeli. Dio sì buono, eppure non è amato! Dio così grande, e non è onorato! sì infinitamente bello, e gli uomini non lo amano, non lo lodano, non lo adorano, non lo glorificano! Dio è essenzialmente il Re, il sovrano Padrone di tutto quanto siamo e di tutto quanto possediamo, l’Arbitro assoluto della nostra vita e della nostra eternità, in realtà è «Tutto in ogni cosa» (I Cor 15, 28), eppure dagli uni è considerato e trattato come un forestiero, dagli altri come un essere fastidioso, da molti come un nemico del quale si vorrebbe disfarsi e che si ardisce perseguitare con l’oltraggio e con l’odio!… Ecco l’inconsolabile e continua afflizione dei santi! Ed ecco pure l’inesprimibile e immenso soggetto di tristezza e di dolore del Santo dei Santi. Nessun linguaggio, né in cielo, né in terra, potrebbe dire che cosa fosse la mortale agonia del Cuore dell’adorabile Vittima, alla vista d’un solo peccato mortale! E che era dunque la vista di tutti i peccati degli uomini, da Adamo sino all’Anticristo?…


Ci troviamo qui in presenza d’impenetrabili abissi di amarezza e di desolazione. Fin dal primo momento della sua vita, quando disse: «Ecco che vengo io», come sulla croce, quando pronunciò queste parole: «Dio mio! Dio mio! perché mi avete abbandonato»? nei giorni della pace così tranquilla di Nazareth, e nella gloria stessa del Tabor, come sotto i colpi delle verghe nella Flagellazione e sotto il peso doloroso della Croce, il sentimento dell’offesa al Padre fu la più crudele Passione di GESÙ. Egli poteva dire continuamente: «Gli obbrobri, dei quali siete l’oggetto, sono caduti sopra di me» (130). E con questi obbrobri che prendo sopra di me stesso, «le grandi acque della tribolazione hanno inondato l’anima mia. Sono disceso e come fissato in abissi di estrema tristezza. Sono arrivato in fondo al mare, e la tempesta mi ha sommerso» (Ps. 68, 2-3). Quanto era grande, quanto era santo, elevato, immenso e senza limiti, nel Verbo incarnato, Sacerdote e Ostia del Padre, l’amore di Condoglianza verso questo diletto Padre, per la sua santità, la sua Maestà, la sua Bellezza, il suo Dominio universale, i suoi diritti e l’amore che porta agli uomini, sue creature! Quanto era sublime, meravigliosamente ammirabile, agli occhi stessi del Padre, quella amorosa tristezza del Figlio suo! Quale onore magnifico per la sua Grandezza offesa, e quale consolazione per il suo Cuore ferito, quella tristezza interiore «del Figlio del suo amore»!… Come, in GESÙ, tutto è bello e delizioso!

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Amor di benevolenza in Gesù

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
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CAPITOLO TREDICESIMO. Amor di benevolenza in Gesù –  Zelo per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime


    Amore di Benevolenza verso Dio, – Zelo per la sua gloria, – Amore della salvezza delle anime, sono termini che esprimono quasi lo stesso pensiero. Voler bene a Dio, ossia desiderargli del bene, non può significare altro che il desiderio della sua gloria esterna; questa domandiamo quando diciamo: «Sia santificato il vostro nome, venga il vostro regno, sia fatta la volontà vostra, così in terra come in cielo» (Mt 6, 9); e l’esaudimento di questa preghiera, è la salvezza delle anime. È vero che Dio ritrae la sua gloria, non solo dalla salvezza dei giusti, ma anche dalla perdizione volontaria dei peccatori. La sua gloria, nell’ultimo giudizio e, nell’eternità consisterà, nel trionfo della sua giustizia sopra i cattivi; ma Egli avrebbe voluto trovare la sua gloria unicamente nella fedeltà delle sue creature dapprima, e poi nella loro eterna salvezza.
    È dolce pensare che tutto quanto possiamo desiderare a Dio di bene, di onore, di trionfo in questo mondo e nell’altro, si confonde con la salvezza delle anime. Le anime sono come la materia della sua gloria. Se le anime periscono, Dio non riceverà dal mondo la gloria ch’Egli aveva in vista nel crearla. Tale è davvero la carità del nostro Dio, che non vuole avere, nel tempo, altri interessi che quelli dei suoi figli (122).
     Orbene, GESÙ lo sa. La nostra dolce Vittima viene in questo mondo per la glorificazione del Padre suo, per il regno di Lui, per la fondazione e la dilatazione dell’impero di Lui; ma perché tutto ciò non può effettuarsi se non con la conquista delle anime, non vi sarà nel suo Cuore che un medesimo amore, egualmente forte e costante, egualmente consumante e immolante: l’amore del trionfo del Padre e l’amore delle anime. Per tal fine, qual’è la vita di questo misericordioso Redentore? Egli prega senza posa, soffre, lavora, si offre Vittima. Egli dice: «Sono venuto a portare fuoco sopra la terra, e che voglio, se non che si accenda» (Lc 12, 49)?


E’ questo il fuoco dell’amore di Benevolenza; sono gli ardori del suo zelo per l’onore del Padre suo, è la carità per le anime che lo consuma. Bisogna assolutamente che il Padre trionfi, e che le anime siano redente e salvate: tutto è lì. I trentatre anni della sua vita sono tutti ripieni di tale intima passione; ma soprattutto nei giorni della sua vita pubblica questo amore si manifesta in un modo più sensibile. Con quale tenerezza Egli parla del Padre suo e dei diritti di Lui alla nostra fedeltà! Come vuole guadagnare le anime al di Lui servizio! E come si ritira nell’ombra, perché tutte le anime si rivolgano direttamente a quel Padre dilettissimo! «Quando sarà elevato da terra, tutto trarrà a sé», ma riferisce al Padre tutto l’onore di quel trionfo: «Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre mio. Chiunque viene a me, prima ha udito il Padre e imparato da Lui» (123). Muore per dare soddisfazione al Padre suo, restituendogli la sua gloria; e per salvare le anime, strappandole alloro nemico. Nel mistero della sua Risurrezione, non saranno dimenticate né la gloria del Padre, né la santificazione delle nostre anime (124). Il Servo di Dio Giovanni Olier, in una delle sue lettere, scrive: «Nel tempo della sua Risurrezione, Nostro Signore pregava incessantemente per la santificazione del Santo Nome di Dio, e l’esaltazione della gloria di Lui. Egli nutriva un ardente desiderio dell’incremento della Chiesa; pregava perché il Padre si compiacesse di stabilire sulla terra la sua Chiesa, che è il suo vero regno, dove è riconosciuto Re, dove i suoi sudditi lo obbediscono e osservano le sue leggi» (125). La sua Ascensione fu il suo trionfo. e il trionfo del Padre, ma era pure come la profezia e il compimento, iniziato nella sua persona, del trionfo di tutte le anime fedeli al suo amore (GV 14, 2-3; Ef 2, 6). (altro…)

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L’amore della nostra divina vittima per Dio suo Padre

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
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SACERDOTE E OSTIA


CAPITOLO DODICESIMO. L’amore della nostra divina vittima per Dio suo Padre – Il suo amore di compiacenza e di riconoscenza


Non colitur Deus nisi amando. Nella Religione ciò che v’è di più santo e di più sublime, è l’amore. È questa la cima alla quale l’anima si eleva per contrarre con Dio l’unione più stretta. «La carità si unisce a Dio per riposare in Lui medesimo, non già per ritrarne qualche vantaggio; perciò essa è più nobile che la fede, la speranza e tutte le altre virtù» (S. TH., II-II, q. 23, a. 6.). Così parla san Tommaso. Del resto è questo un oracolo di san Paolo (I Cor 13, 13).
      L’amore di Nostro Signore GESÙ CRISTO per il Padre suo! Chi mai potrebbe parlarne degnamente? Tutto in GESÙ è ugualmente perfetto in sommo grado; ma Egli ha voluto che nel suo stato di Ostia risplendessero le disposizioni più sublimi, più meravigliose e più sante, e particolarmente vi risplendesse la carità.

     San Dionigi chiama la carità una forza che unifica, raduna e concentra, in modo eccellente, nel Bello e nel Bene (111). Quella forza divina, quel movimento impetuoso e dolce, quel trasporto amoroso e tenero, pieno di gioia, di una gioia estatica. (112), era la vita costante della nostra adorabile Vittima; vita, tutta di amore per il Padre suo. In GESÙ adoriamo l’amore verso il Padre nei suoi quattro aspetti: compiacenza, riconoscenza, benevolenza e condoglianza.
***

    L’amore di Compiacenza è quello che deriva dalla contemplazione della Bellezza infinita, immutabile ed eterna, sempre nuova e sempre antica (113) dell’Essere divino, con le sue ineffabili perfezioni, con i suoi profondi, gloriosi ed essenziali attributi, con la sua vita intima, ossia la vita della Trinità,  con le sue opere esterne, in una parola: dalla contemplazione di Dio. In tale contemplazione l’anima riposa, gode, non ha consolazione, contentezza, sentimenti di trasporto, felicità e vita, se non nella cognizione intima e certa, nella vista chiara e sicura di quella Bellezza eterna, di quel Bene indefettibile ed eterno; sotto l’influenza di tale soprannaturale visione essa dimentica quanto non è il suo Dio; in tutto l’essere suo si compiace che Dio sia quella Bellezza e quel Bene ch’essa contempla, benché sia intimamente persuasa che, quando si tratta di Dio, quel poco che si conosce è niente a confronto dì ciò che si ignora, perché l’Essere divino possiede una immensità di amabilità infinite assolutamente impenetrabili a qualsiasi sguardo creato (114).
      Ma, che Dio sia ciò che Egli è, così grande e potente, così santo e libero, così bello e assoluto nel suo Essere: Dio! che possiede il proprio Essere da se stesso, essendo necessariamente, sostanzialmente Padre, Figlio e Spirito Santo; insomma, che Dio sia Dio, e non solo che Dio sia Dio (se è lecito usare un tal linguaggio), ma che essendo ciò che è, Egli sia a se stesso la propria gloria, la propria lode, la propria beatitudine, dimodochè, in ogni evento, Dio basti a sé, Dio sia contento in se medesimo, Dio trovi eternamente e essenzialmente in se stesso, tutto quanto. forma la suprema felicità… ecco il godimento dell’anima che lo conosce e si innalza a Lui per l’amore; ecco il suo trasporto, la sua dolcissima compiacenza, la sua inesprimibile gioia.
     Molte anime – le anime dei santi – hanno sperimentato un tal amore. Ma come parlare dell’amore di Compiacenza del nostro Sacerdote, della nostra Ostia, di GESÙ? Egli era sempre in presenza del Padre suo, appunto nella sua qualità di Sacerdote e Ostia; e il suo sguardo, nella chiara luce, non già soltanto di una fede viva, ma della Gloria medesima, contemplava senza velo la suprema e gloriosa Bellezza dell’Essere divino. Soltanto nell’eternità ci sarà dato di contemplare qualcuno dei secreti dell’amore di Compiacenza che inondava, trasportava, consumava quel Cuore adorabile. Ma fino a quel momento non ne sapremo nulla. San Dionigi ha detto: «L’amore è estatico, e, sotto un tale impero, colui che ama non appartiene più a sé, ma all’oggetto del suo amore» (115). E soggiunge: «Il grande san Paolo, posseduto dall’amore divino, e dalla violenza di questo amore rapito in estasi, esclamava con una voce deificata: «Non sono più io che vivo». Ecco il vero amante, trasformato in Dio, ut qui excessit Deo, vivente non più della propria vita, ma della vita sovranamente cara dell’oggetto del suo amore».
     «L’anima che esercita l’amore di compiacenza, grida incessantemente nel suo sacro silenzio: A me basta che Dio sia Dio, che la sua bontà sia infinita, e la sua perfezione immensa. Poco mi importa ch’io viva o muoia, poiché il mio diletto vive eternamente di una vita tutta trionfante. La morte non può rattristare un cuore, il quale sa che il suo Amore sovrano è vivente. All’anima che ama, basta che Colui che essa ama più di se stessa sia colmo di eterna beatitudine; poiché essa vive più in Colui che ama, che non nel corpo che informa, essendo che veramente non è essa che vive, ma il suo diletto che vive in lei» (116).
     L’estasi di san Paolo era d’una grande bellezza soprannaturale, eppure che cosa è essa mai in confronto delle elevazioni, dei trasporti, della gioia dell’anima di GESÙ? dell’anima di GESÙ che contemplava la Bellezza dell’Essere divino, e amava questo Essere divino secondo tutta la forza della sua visione e della sua scienza? Queste, infatti, erano in certo qual modo infinite in Gesù, a motivo della luce stessa principio di tale scienza, che era Dio, e a motivo pure della natura stessa del suo amore, che era lo Spirito Santo? Perché l’amore con cui Nostro Signore amava in tal modo suo Padre, era lo stesso Spirito Santo con cui lo ama eternamente. Certo, ciò è vero anche per noi; il nostro amore soprannaturale per Dio, è quello stesso amore col quale le Persone divine si amano a vicenda, e questo amore è lo Spirito Santo; ma noi amiamo senza vedere la Bellezza dell’oggetto amato; il nostro amore per Dio è imperfetto, come la nostra scienza. GESÙ invece amava secondo tutta la conoscenza che aveva delle amabilità del Padre suo; e tale conoscenza, attinta dalla Visione beatifica medesima, necessariamente era senza velo e senza ombra, e pertanto perfettissima.
    Vi era dunque nella nostra dolce Vittima, ciò che noi chiameremmo una continua estasi di gioia, alla vista di tante perfezioni infinitamente amabili; ma, qui ancora, adoriamo, benediciamo il nostro Dio e Salvatore, per essersi degnato di lasciarci intravvedere sì ammirabili magnificenze della sua vita umana; e sospiriamo l’Eternità per contemplare, non più «in enigma, ma faccia a faccia», tali divini splendori.
    Noi ammiriamo con vero stupore, nell’anima beata di GESÙ, quell’incomparabile beatifico rapimento in presenza delle amabilità di suo Padre ch’Egli sempre contemplava, sempre lodava e sempre amava; quella compiacenza universale ch’Egli provava. in tutto l’essere suo, nel suo spirito, nel suo cuore e nella sua volontà, per la delizia, il trasporto e l’ebbrezza della contemplazione di tale spettacolo eternamente bello; ma come si conciliava tutto ciò col dolore, con la tristezza e la desolazione che Egli provava. sul Calvario ed anche durante la sua vita?

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Disposizioni di nostro Signore nel suo stato di vittima

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA


CAPITOLO UNDICESIMO. Delle disposizioni di nostro Signore nel suo stato di vittima – La sua religione

GESÙ, la nostra Vittima, è Santa, è la Santità stessa, l’essere e la sostanza della santità e di ogni virtù soprannaturale (102). Egli è dunque la sostanza anche della Religione, poiché questa è la grande virtù della Vittima che sta sempre davanti a Dio per rendergli tutti gli omaggi che gli sono dovuti. GESÙ Vittima è la Religione e tutta la Religione dovuta al Padre; lo fu dal primo istante della sua vita mortale e lo sarà eternamente. Quale spettacolo nel Cielo, quella lode, quella riconoscenza, quella soddisfazione perpetua e assolutamente degna, quella compiacenza eterna procurata al Padre! Tutto questo avveniva, senza interruzione, durante la vita mortale di GESÙ, e continua ancora nel SS. Sacramento.
     Intesa nel suo significato più elevato e più esteso, la Religione è la prima delle virtù, perché, secondo s. Tommaso, «è la professione della fede, della speranza e della carità, per le quali l’uomo in modo primordiale entra in relazione con Dio ed è quella che tiene il comando riguardo a tutte le altre virtù (103). Tale è pure il pensiero di s. Agostino (104). La Religione tributa a Dio quanto gli è dovuto, per quanto ne è capace la creatura; essa rende pure alle creature quanto ad esse è dovuto ovvero quanto è conveniente che ricevano da noi, ma sempre per l’onore e l’amore di Dio. Dimodochè, in verità, la Religione abbraccia tutto, e fa di noi stessi delle vittime perpetue di Dio, della sua gloria e del suo beneplacito; perché ci determina a pensare, volere e fare ogni cosa, non già per noi medesimi, ma per Dio, «sia che prendiamo il cibo, dice s. Paolo, che beviamo, o facciamo qualunque altra cosa» (I Cor 10, 31). Per la Religione, la creatura dedica tutta se medesima a Dio, sia per adorarlo, sia per benedirlo, lodarlo, supplicarlo, offrirgli riparazione, compiacimento e soddisfazione, estendere il suo regno, far sì che il suo nome sia conosciuto e santificato, sottomettere alla sua volontà l’universo intero. La Religione è dunque il principio di tutta la nostra vita spirituale, di tutto quanto facciamo per corrispondere ai disegni di Dio sopra di noi, come di tutto quanto ci imponiamo di fatica e di sollecitudine per la salvezza dei nostri fratelli (105).
Ma essendo utile dividere i diversi soggetti, per veder meglio l’eccellenza propria di ciascuno di essi, tratteremo sucsuccessivamente di diverse virtù in Nostro Signore. Per altro, ci sembra importante considerare dapprima questa grande virtù di Religione per la quale la creatura riconosce di non aver l’esistenza che per riferirsi a Dio, come alla sorgente e al principio di tutta la vita soprannaturale. «Non sapete voi, dice Nostro Signore, ch’io debbo occuparmi delle cose di mio padre?». «Il Pontefice, dice san Paolo, è stabilito per dedicarsi a ciò che si riferisce a Dio». (altro…)

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Santità dell’umanità di Gesù Ostia del suo sacrificio

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA


CAPITOLO DECIMO. Santità dell’umanità di Gesù Ostia del suo sacrificio

È necessario che la Vittima sia santa. Senza un tal carattere, come potrebbe essere offerta al Dio tre volte santo? Perciò, nell’Antico Testamento, anche per gli animali destinati al Sacrificio, si esigeva una specie di santità, tutta esteriore s’intende, ma indispensabile (Lv 3, 22, ecc.).
     Nella Legge nuova, chiunque si presenta a Dio e vuole offrirgli il sacrificio di se medesimo nella carità, deve rigorosamente mettere in pratica la raccomandazione di san Paolo: «Vi supplico, per la misericordia di Dio, di fare dei vostri corpi un’ostia viva, santa, a Dio gradevole, come sacrificio e omaggio spirituale» (Rm 12, 1).
    Ma questo sacrificio e quest’omaggio non hanno valore, agli occhi di Dio, se non per la unione con la Religione di GESÙ CRISTO. La santità di ogni vittima spirituale non può essere che una partecipazione della grande santità di GESÙ CRISTO che è l’esemplare, la fonte e anche la sostanza di ogni santità. GESÙ solo è la Vittima santa. «Egli è il sacerdote santo e santificatore, dice s. Agostino; e la Vittima ch’Egli offre, e che non è altro che Lui stesso, è santa e pura. O Vittima beata! O vera Vittima! Ostia immacolata! Non gli abbiamo dato noi ciò che ha offerto, ma lo ha preso da noi e lo ha purificato, indi lo ha offerto. Perché la carne che Egli ha preso da noi è quella ch’Egli ha offerta; ma donde l’ha presa? Dal seno di Maria Vergine, affinché potesse offrire una Vittima pura a favore di noi tutti che eravamo impuri» (In Ps. 149).
      Procuriamoci dunque la gioia di considerare la Santità della nostra Vittima. (altro…)

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Dignità dell’umanità di Gesù ostia del suo sacrificio

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P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE

SACERDOTE E OSTIA


CAPITOLO NONO. Dignità dell’umanità di Gesù ostia del suo sacrificio

    Adoperiamo la parola Dignità, per esprimere l’elevazione dell’Umanità di GESÙ all’Unione ipostatica, elevazione la più sublime che sia possibile (87). In questo Mistero, la Persona del Verbo non riceve nulla, né viene perfezionati in nessuna maniera; neppure essa perde nulla, ma rimane nella sua Bellezza propria, immutabile, semplicissima e assolutamente indefettibile. Non così della natura umana: essa perde, o meglio, non possiede ciò che avrebbe avuto senza tale unione, dato che avesse potuto esistere prima. Ma appunto quella privazione costituisce la sua grandezza e la sua gloria. Perché ciò di cui è priva, è la sua Personalità, vale a dire quello stato per il quale una creatura ragionevole ha il dominio sopra il suo essere naturale con l’iniziativa e il dominio dei propri atti.
    Ma la dignità di un essere e degli atti suoi, sta in relazione diretta con la dignità del supposto ossia della persona che se li appropria (88). L’essere e gli atti di un animale sono essere e atti di un supposto che si chiama un animale. L’essere e gli atti di un uomo sono essere e atti di una persona umana che ha il dominio e il possesso di questo essere e di questi atti. Orbene, l’essere naturale e gli atti di iniziativa dell’Umanità di Gesù, appartengono alla Persona del Verbo, perché questa Persona adorabile li fa suoi, in un modo verissimo e assoluto. In GESÙ vi era dunque l’essere d’un Dio, il corpo e l’anima d’un Dio, gli atti e le opere d’un Dio. E quando parliamo di iniziativa da parte dell’Umanità di Gesù Cristo, non intendiamo dire che vi fosse in Lui, dapprima un principio indipendente che producesse certi atti, e che in seguito il Verbo li facesse suoi propri; questi atti, nel tempo stesso in cui venivano prodotti, erano proprietà del Verbo. Ma, tuttavia, venivano realmente prodotti, e prodotti liberamente, da una volontà e da una operazione propria della natura umana del Salvatore, poiché è verità di fede che la Umanità di Gesù era completa in tutto quanto costituisce la natura umana: volontà, libertà, operazioni proprie, distinte dalle operazioni della natura divina. (altro…)

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