P. SILVIO MARIA GIRAUD
MISSIONARIO DELLA SALETTE
SACERDOTE E OSTIA
Capitolo Diciannovesimo. Gesù – Il suo sacrificio sulla croce
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Quel grande e glorioso Sacrificio ebbe come prima causa la volontà del Padre. Nell’istante del suo ingresso nel mondo GESÙ disse: «Eccomi, o Dio, vengo per fare la vostra volontà». San Paolo soggiunge: «Per questa volontà siamo stati santificati, mediante l’oblazione del corpo di GESÙ CRISTO fatta una volta… poiché con una oblazione rese perfetti in perpetuo quelli che sono santificati» (Eb 10, 9-10, 14).
Quella volontà del Padre, che ha la sua origine nella Eternità, si manifestò fin dal principio della storia del mondo. Il Sacrificio di Abele e quello dell’età dei patriarchi ne erano già l’espressione. «L’Agnello, dice san Giovanni, venne ucciso fin dal principio del mondo». Questo vuol dire che, in quella guisa che il Sacerdozio di Nostro Signore si estende a tutti i tempi che ne han preceduto la venuta, il suo Sacrificio era pure la religione che animava tutti gli antichi sacrifici, tanto nella legge di natura, conie nella legge scritta. A tutti esso dava il loro merito, il loro valore, la loro virtù, qualunque fosse il rito con cui venivano offerti. Perché tutto quanto avveniva nell’antica Legge, non era che un abbozzo, un complesso di «elementi» di quel grande e unico Mistero che è il Sacrificio di GESÙ CRISTO (Gal 4, 3-9).
Tuttavia, speciali riti, in un modo più sensibile, esprimevano i caratteri esterni di quel divino Sacrificio, ed è opportuno parlarne qui. Sono quei riti nei quali, la Vittima, attraverso varie cerimonie, richiamava più chiaramente l’idea del fine del Sacrificio, fine che necessariamente è di riconoscere la Padronanza, la Sovranità, la Santità e tutti i diritti di Dio.
I Sacrifici antichi, e particolarmente quello dell’Agnello pasquale, il più notevole tra tutti, constavano di quattro parti: l’Oblazione, l’Immolazione, la Combustione e la Comunione. Nell’Oblazione, la Vittima era presentata a Dio, e gli era talmente dedicata che, da quel momento, non poteva più servire a nessun uso profano. Si chiamava Immolazione, l’atto col quale la Vittima era uccisa. La Vittima era poi gettata nel fuoco per esservi consumata per intero, come nell’olocausto; oppure veniva in parte soltanto consumata dal fuoco, e in parte riservata come cibo ai Sacerdoti e agli astanti. L’atto per il quale il Sacerdote e gli astanti partecipavano alla Vittima, col nutrirsi della sua carne, era la Comunione.
Ciascuna di queste quattro parti aveva grande importanza; ma l’Immolazione era considerata come la principale. L’Oblazione ne era il preludio; la Combustione e la Comunione ne erano il seguito e il complemento. Una volta sgozzata e sottoposta all’azione del fuoco, la Vittima doveva essere mangiata; ma il Sacrificio era già perfetto con la morte che la Vittima subiva nella Immolazione.
Orbene, il Figlio di Dio, venuto in questo mondo, in qualità di unico Sacerdote del Padre suo, vi ha offerto un Sacrificio di cui la materia è la sua divina carne. Egli era libero di offrire questo sacrificio secondo il rito che gli piacesse, ed anche senza nessun rito e nessun segno esterno. Ma, essendo Egli «il fine della legge» (Rm 10, 4), ha voluto adempiere, con fatti esterni, quanto da essa era figurato e quindi ha voluto che il suo Sacrificio riproducesse le quattro parti del Sacrificio levitico. Fece dunque la sua Oblazione, ebbe la sua Immolazione, subì la Combustione e diede se stesso in Comunione. Egli fece la sua Oblazione nel seno di sua Madre, quando disse: «Eccomi, io vengo». E perché questa prima Oblazione era stata compiuta in una maniera necessariamente invisibile e sconosciuta agli uomini, Egli la fece una seconda volta, visibilmente e pubblicamente, nel Tempio, a Gerusalemme. Tale Oblazione precedette di trentatré anni l’Immolazione, come l’Oblazione dell’Agnello pasquale che era la figura principale «dell’Agnello che porta i peccati del mondo», si faceva parecchi giorni prima che ne venisse fatta l’Immolazione. L’Immolazione poi si compì sul Calvario. La Combustione si realizzò nella Risurrezione, e la Comunione nella Ascensione. In questo capitolo ci limitiamo all’Immolazione; perché, come quest’azione era la più importante nel Sacrificio dell’Antica Legge, essa fu pure per Nostro Signore la parte principale del suo Sacrificio, e, in un certo senso, tutto il suo Sacrificio. I Libri sacri, infatti, ci insegnano con insistenza che dal sangue di GESÙ e dalla sua morte tutto fu riparato, venne compiuta la nostra salvezza e a Dio data ogni gloria. Tale era la espressa volontà del Padre. In GESÙ, tutto era capace di soddisfare la Santità e la Giustizia del Padre, anche il più piccolo atto di Religione, anche il minimo sospiro del cuore: ma era piaciuto alla divina Sapienza, che la morte fosse il prezzo del peccato e la condizione necessaria della Riconciliazione degli uomini. Questa verità viene ripetutamente espressa nelle Epistole di san Paolo; e il Concilio di Trento la insegna con la maggior chiarezza (Sess. 22, c. 1).
O Dio! Quale mistero, questa morte! Quanti supplizi l’hanno preparata e consumata! Quali abissi, gli abissi di quella Passione del Figlio di Dio, che il precetto del Padre ha voluta, ha resa inevitabile e necessaria! Quanto è adorabile un tal Padre! Quanto è tremendo nelle esigenze della sua Santità! «Come sono profondi i suoi disegni e imperscrutabili le sue vie!» (Rm 11, 33). Quanto è «ricca» la sua misericordia e meravigliosa nei suoi espedienti! Come «è eccessiva la sua carità» (Ef 2, 4) nei suoi fini e nei mezzi per ottenerli… Contempliamo con amore come Gesù si abbandonò all’Immolazione senza resistenza, anzi «con gioia» (159), in mezzo ad un oceano di dolori e di angosce. Si abbandonò «come un agnello che si lascia condurre al macello», «come pecora che sta muta dinanzi a chi la spoglia» (Ger 11, 19; Is 53, 7), e come quel capro chiamato «di abominazione», che si cacciava nel deserto, tra le bestie selvagge, carico di tutte le maledizioni del popolo; perché Egli sapeva di portare sopra se stesso quel peso insopportabile. Perciò, nell’Orto «cominciò ad atterrirsi e aggravarsi di tedio e di tristezza» (Mc 14, 33). Era l’effetto dell’orrore che ispirava alla purissima sua innocenza e alla sua universale santità, la nauseante deformità dei peccati che, in quell’ora decisiva, Egli prendeva, in modo più sensibile, sopra di sé. L’aveva accettato quel peso, sin dal principio; nulla era nuovo per il suo Cuore; ma ora quel sentimento d’inesprimibile ripugnanza che provava, per il suo stato e la sua condizione di peccatore universale, – Lui! il santo di Dio! (Lc 4, 34) – si faceva più vivo e invadeva, per così dire, in un modo più tormentoso, l’anima sua, il suo corpo, i suoi sensi, mentre Egli compariva davanti alla Giustizia del Padre come un delinquente che domanda grazia.
Ma «si era umiliato, facendosi obbediente sino alla morte, e alla morte di croce (Fil 2, 8); quindi non vi fu ignominIa o sofferenza che non volesse subire. Era questa la condizione imposta dal Padre. Come mai avrebbe Egli potuto esitare? Perciò, con un coraggio di cui Egli solo era capace, e nella chiara previsione di tali estremità, aveva detto, nell’alzarsi dalla mensa dopo la Cena: «Bisogna pur che il mondo sappia che amo il Padre», la sua gloria e la sua volontà; «Egli ha parlato, ed io compirò tutto quanto desidera. Alziamoci e andiamo» (Gv 14, 31); ed era salito al Getsemani, e aveva proferito quelle grandi parole di perfetta e assoluta obbedienza: «Non la volontà mia, ma la vostra!». Era entrato in agonia, e il suo sangue aveva imporporato la terra. Giuda stava per venire, con la turba e con la coorte romana, per arrestarlo; e allora incominciava quella Passione, della quale è impossibile parlare degnamente e che provocherà sempre tante lagrime, tanta adorazione e tanto amore. Passione beata e «benedetta», come la chiama la Chiesa (160), che è il tesoro del cielo e della terra, il bene di Dio medesimo, la sua gioia eterna, gioia che sarà pur la nostra nei secoli dei secoli!
O Passione dolorosa! Passione amorosa! Passione diletta! o Sudor di sangue! o supplizi del Pretorio! ignominie, sofferenza universale, universale obbrobrio! O Flagellazione! o Incoronazione di spine! Condanna! Salita al Calvario con la Croce! Spoglia mento! Crocifissione! Spaventose ore, di agonia! Lenta morte dell’Agnello! Sete! Piaghe delle mani e dei piedi Sangue che scorre, che si ferma nero e raggrumato! Abbandono da parte del Padre! Supremo sospiro e Morte!
Morte!… Morì adunque Colui che è la Vita; morì veramente, spirò, come noi dovremo spirare; e fu morto! L’anima fu realmente separata dal corpo. A poco a poco, quel corpo diventò freddo, era proprio la morte: ne è prova il sacrilego colpo di lancia. Quel corpo rimaneva unito alla Persona divina che lo portava; perché l’unione ipostatica, una volta compiuta, era indissolubile. Ma questa unione, benché più forte di ogni vita, – unione che rendeva il corpo del divino Crocefisso sempre degno del culto che è dovuto soltanto a Dio tale unione non gli dava la vita. Quella vita grande e gloriosa, che prima lo animava, era estinta e distrutta; e, appunto in questa distruzione appariva la Grandezza dell’Essere di Dio. Perché questa distruzione, non era stata compiuta che per onorare e glorificare quell’Essere. E infatti, come tutte le perfezioni divine si riassumono in una sola parola, l’Essere: così tutto il culto, tutta la religione, tutta la perfezione del Sacrificio si riassumevano in questa grande morte: non essendovi nulla che fosse capace di proclamare che Dio è tutto, meglio di un tale annientamento; poiché era riconoscere che nulla, neppure una vita sì gloriosa, meritava di sussistere davanti a Lui.
Se per rendere omaggio alla Maestà infinita del Creatore l’universo si fosse inabissato nell’oblio; se tutto quanto vi è di vita, di forza, di bellezza, fosse stato subitamente distrutto, che sarebbe mai stato tutto questo sacrificio a paragone di una sì incomprensibile «catastrofe», per parlare come la Chiesa (161): la propria vita d’un Dio, che scompare vinta dalla morte!
In vista appunto di una tale Immolazione così prodigiosa, di un tal Sacrificio veramente e assolutamente perfetto e unico nella sua perfezione, il Signore diceva al suo popolo per bocca dei Profeti: «Quo mihi multitudinem victimarum vestrarum! Plenus sum» (162). Plenus sum! Parola tutta divina! Quella morte dava a Dio tutto quanto Egli aspetta dalle sue creature, e corrispondeva a tutto ciò ch’Egli è in se medesimo. Era, infatti, un perfetto Sacrificio di latria, vale a dire, di adorazione e di lode, perché era l’atto e lo stato più adatti ad esprimere tutto l’omaggio e l’onore che Dio merita in se stesso, nella sua Maestà, nella sua Santità e nel suo Essere. Era un Sacrificio perfetto di azioni di grazie, poiché rendeva a Dio e rimetteva nelle sue mani, come a Colui dal quale emanava, quella vita, che, in GESÙ CRISTO, come in ogni uomo, è il bene che viene considerato come il più prezioso. Perciò la divina Vittima dice: «Nelle vostre mani depongo la mia vita» (Lc 23, 46). Era pure quella morte un perfetto Sacrificio di impetrazione, perché onorava Dio sorgente di ogni bene; e per verità, sappiamo dalla fede che da quella ci sono derivati tutti i beni. Infine, in un modo più tenero e più sensibile, era un perfetto Sacrificio di espiazione, poiché la morte era il debito del peccato. Il Figlio di Dio pagò questo debito, affinché potessimo evitare per sempre l’unica morte da temersi per noi, la privazione cioè della vita della grazia: Qua vita mortem pertulit, et morte vitam protulit (Hymn. Vexilla Regis).
Sotto altri aspetti ancora, quella morte adorabile era un Sacrificio perfettissimo. «Nella legge antica, dice san Tommaso, vi erano tre ordini di Sacrifici: il Sacrificio per il peccato, l’Ostia pacifica e l’Olocausto. Orbene, GESÙ è stato tutto ciò: Sacrificio per il peccato, poiché «fu dato a morte per i nostri peccati» (Rm 4, 25); Ostia pacifica: poiché da GESÙ CRISTO noi riceviamo la grazia che ci salva; inoltre, Olocausto. Questo aveva per fine l’unione perfetta con Dio, unione che si compirà soprattutto nella gloria; ora appunto da GESÙ CRISTO abbiamo ottenuto la perfezione della gloria; per il merito del suo sangue abbiamo fidanza di arrivare alla gloria celeste». Il Dottore Angelico conclude: «Perciò Cristo, in quanto uomo, non è stato soltanto Sacerdote, ma anche Vittima perfetta, perché è stato assieme Ostia per il peccato, Ostia pacifica e Olocausto» (III, p. XXII, art. 2). Tale è in riassunto il grande Mistero di GESÙ CRISTO; venne compiuto nel tempo; ma in verità esso è per l’eternità. È stato un fatto storico avvenuto una volta, sul Calvario, con circostanze transitorie. Considerato nella sua sostanza, nei suoi fini e nei suoi effetti, è permanente e dura nei secoli eterni. Esso è «quel grande mistero di amore, di cui parla san Paolo, il quale si è manifestato nella carne, è stato giustificato dallo Spirito Santo, è stato conosciuto dagli Angeli, predicato ai Gentili, creduto nel mondo, e infine assunto nella gloria» (1 Tm 3, 16).
(156) BOSSUET, Réflexions sur l’Agonie de Jésus-Christ.
(157) In inferno nulla est redemptio. Offic. Def., Lect. VII, R.
(158) Nel senso di S. Tommaso, già citato sopra.
(159) Hebr., XIII, 2. – Gaudium suum vocat salutem animarum. CORNEL, a LAP., in illud.
(160) Unde et memores… tam beatae Passionis. Can. Missae. – In hora benedictae Passionis tuae. Orat. votiv., Compass. B. M. V.
(161) Dum saevae recolo ludibrium necis, Divinamque catastrophen. Off. Sept. Dolor. B. V.
(162) ISA., I, 11; JEREM., VI, 20; AMOS, V, 22; Ps., XLIX, 9-13.